• Principale

15.0 La favola del "risorgimento" italiano

15.0. La favola del "Risorgimento" italiano ovvero la favola del lupo e l'agnello

          L'histoire du ‘Risorgimento’ italien ou de la fable du loup et l'agneau

          The tale of the Italian ‘Risorgimento’ or the fable of the wolf and the lamb

 

LUPUS ET AGNUS – IL LUPO E L’AGNELLO
 
Ad rivum eundem lupus et agnus venerant, siti compulsi. 
 
Superior stabat lupus, longeque inferior agnus. 
 
Tunc fauce improba latro incitatus iurgii causam intulit:
 
"Cur -  inquit - turbulentam fecisti mihi aquam bibenti?" 
 
Laniger contra timens : 
 
"Qui possum - quaeso - facere quod quereris, lupe?
A te decurrit ad meos haustus liquor."
 
Repulsus ille veritatis viribus:
 
"Ante hos sex menses male - ait  - dixisti mihi".
 
Respondit agnus: 
 
"Equidem natus non eram!"
 
"Pater, hercle, tuus - ille inquit  - male dixit mihi!"
 
Atque ita correptum lacerat iniusta nece.
 
Haec propter illos scripta est homines fabula qui fictis causis innocentes opprimunt.
 
 
Un lupo e un agnello, spinti dalla sete, si erano ritrovati allo stesso ruscello.
 
Il lupo stava più in alto e, un po' più lontano, in basso, l'agnello.
Allora il predatore, eccitato dalla gola irrefrenabile, cercò un pretesto di litigio.
 
"Perché - dice - mi hai fatto diventare torbida l'acqua mentre stavo bevendo?
 
E l'agnello, timoroso:
 
"In che modo posso - prego - fare quello che lamenti, lupo? L'acqua scorre da te alle mie sorsate!"
Quello,confutato dalla forza della verità:
 
"Sei mesi fa - aggiunge - hai parlato male di me!"
Rispose l'agnello:
 
"Certamente non ero ancora nato!"
 
"Perbacco,tuo padre - dice - ha parlato male di me!"
E così, lo afferra e lo sbrana procurandogli una morte violenta.
Questa favola è scritta per quegli uomini che opprimono i galantuomini con motivazioni pretestuose.

(trad. Italo Zamprotta)

 

Tutto il cosiddetto risorgimento italiano risponde alla logica concisa e didascalica di questa favola di Fedro,che tanto amai fin da quando la tradussi in seconda media usando l'antologia latina "Arbor felix",pubblicata dal grande storico e filologo Carlo Del Grande(1899-1970),ordinario di Letteratura greca all'Università degli studi di Napoli. Fedro comunque, a sua volta, l'aveva ereditata da Esopo (VI sec. a.C.).

 

Infatti,per realizzare l'unità d'Italia fu giocoforza che il lupo piemontese (anch'egli situato a monte, al  nord!) sbranasse il pacifico agnello napolitano (situato a valle, al sud!), utilizzando tutti i pretesti che la sporca politica di Camillo Benso e dell'Inghilterra massonica riuscirono a creare a livello mediatico sia presso le cancellerie degli altri stati europei sia presso quella minima parte di opinione pubblica alfabetizzata che leggeva i giornali dell'epoca. A tutto ciò va affiancato il partito degli esuli meridionali stanziati a Torino,capitale della "democrazia italiana" dell'epoca.La più parte di costoro qualche anno dopo l'unità(che oggi stiamo celebrando,essendo nel 2011) capirono di essere stati buggerati.Altri pochi fecero finta di non essersi accorti di nulla,perchè avevano da difendere i posti e le prebende acquisiti e tramandati ai loro discendenti,alcuni dei quali pontificano ancora oggi dagli alti scranni dell'inganno e del tradimento ereditati dai loro padri!

 

Manco a farlo apposta nella favola troviamo un lupo che si trova in alto, al Nord, mentre l'agnello è in basso, al Sud. Chi l'avrebbe mai detto! Chissà, già allora presagivano vicende che sarebbero successe molto più in avanti nei secoli. In Esopo le favole finivano sempre con una morale. Per questa ripeto quella dell'autore:

 

La favola mostra che contro chi ha deciso di fare un torto
non c'è giusta difesa che valga.
Anche i capi di stato, quando hanno in mente di ottenere
 
un vantaggio usando la forza inventano pretesti, e non è possibile
farli desistere con argomenti giusti e fondati
.

(Nella morale fedriana riecheggià già il "pretesto" piemontese, quel famoso "grido di dolore" che riportano tutti i libri di storia. Pochi però sanno che fu inventato e suggerito al "galantuomo" savoia da quel furfante avventuriero che rispondeva al nome di Napoleone III).

 

Prima di iniziare la ricostruzione del misfatto, desidero precisare che io sono cittadino della Repubblica italiana, ma sono di nazione napolitana, perchè così era chiamata la terra da cui provengo fino al tragico momento della conquista e dell'annessione al Piemonte con i falsi plebisciti.

 

"Numerosi sono gli esempi in letteratura che usano il termine Napolitano con accezione “nazionale”, come «The Neapolitan government and Mr. Gladstone: A letter to the Earl of Aberdeen», o ancora gli scritti del patriota Giacinto de’ Sivo, che ci parla del popolo, dell’esercito e dell’inventiva dei napolitani nelle sue opere come «Storia delle due Sicilie: dal 1847 al 1861» o «I Napolitani al cospetto delle nazioni civili». La nazione napoletana compare anche in libri come «Le pagine della letteratura italiana: antologia dei passi migliori» del 1924, «Lettere napolitane» del 1864, «La questione napoletana-sicula» del 1849, «Le due civiltà: settentrionali e meridionali nella storia d’Italia dal 1860 al 1914» del 2000, «Difesa dei soldati napolitani» del 1860, «Memorie storico-critiche degli storici napolitani» del 1781".(da "La Napolitania").

 

Aborrisco il termine "duosiciliano", coniato recentemente da persone che con Napoli non hanno nulla da spartire e che non hanno rispetto per la storia e per la linguistica. La Sicilia, infatti, è tutt'altra cosa, diversa da Napoli e dalla Napolitania, e non da ora. Se si leggono gli antichi filosofi greci e gli storici greci e romani, si trova sempre una distinzione netta tra italici e siculi, e la Magna Graecia e la Sicilia. E gli italici erano coloro che abitavano la Calabria, la Puglia, la Campania, la Lucania, l'Abruzzo, l'Umbria. Lungo le coste vi erano i greci che diedero poi vita alla Magna Graecia.

 

Quindi io faccio parte di questa storia, di questa cultura ,nettamente distinta da quella degli etruschi, e dei Celti, poi chiamati Galli.

 

IL RISORGIMENTO ITALIANO RACCONTATO DA CHI SA CIO' CHE DICE

 

Dostoevskij sul Risorgimento italiano

Dostoevskij assunse la direzione della rivista conservatrice Graždanin ("Il Cittadino"),dove iniziò a pubblicare dal 1873 II Diario di uno scrittore,una serie di articoli d'attualità,tra questi anche uno sull'Italia.
 
Prendete, per esempio, il conte di Cavour – non è un’intelligenza, non è un diplomatico? Io prendo lui come esempio perché ne è già riconosciuta la genialità e inoltre perché è già morto. Ma che cosa non ha fatto, guardate un po’; oh sì, ha raggiunto quel che voleva, ha riunito l’Italia e che ne è risultato: per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata ed esaurita (ma è stato proprio così?) ma che cosa è venuto al suo posto, per che cosa possiamo congratularci con l’Italia, che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del conte di Cavour? È sorto un piccolo regno di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, [...] un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del suo essere un regno di second’ordine. Ecco quel che ne è derivato, ecco la creazione del conte di Cavour!
(tratto da: Il Domenicale, 23.10.2004 (anno III), n. 43, p. 3,
Fëdor M. DOSTOEVSKIJ (1821-1881), “Diario di uno scrittore”,ed. it. a cura di Ettore Lo Gatto (1890-1983), Sansoni, Firenze 1981, pp. 925-926.
 
"La guerra contro il brigantaggio, insorto contro lo Stato unitario, costò più morti di tutti quelli del Risorgimento. Abbiamo sempre vissuto su dei falsi: il falso del Risorgimento che assomiglia ben poco a quello che ci fanno studiare a scuola!"
Indro Montanelli

"Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d'infamare col marchio di briganti". 
Antonio Gramsci

"Come ha potuto solo per un momento uno spirito fine come il tuo credere che noi vogliamo che il Re di Napoli conceda la Costituzione. Quello che noi vogliamo e che faremo è impadronirci dei suoi Stati"
Camillo Benso conte di Cavour (lettera a Ruggero Gabaleone di Salmour,politico e diplomatico piemontese)

"Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale, temendo di esser preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio".
Giuseppe Garibaldi

 
 
Anche il Risorgimento andrebbe rivisitato
Molto chiara e illuminante la risposta data dal giornalista, storico e scrittore Paolo Granzotto a un suo lettore:

La pagina più nera della storia d'Italia e ancora coperta dal segreto militare a distanza di 140 anni dagli avvenimenti. Nonostante il Risorgimento stia lentamente subendo un processo di rivisitazione in chiave neoborbonica, grazie all'impegno di alcuni storici coraggiosi, che lavorano in contrasto all'ortodossia accademica, a Roma, presso lo Stato Maggiore dell'Esercito, si conservano, inaccessibili agli studiosi, 150.000 pagine che contengono la verità sull'insurrezione meridionale contro i piemontesi. Quel controverso periodo capziosamente definito brigantaggio.

I documenti che potrebbero finalmente fare luce sulla distruzione di interi paesi, sulla deportazione dei suoi abitanti e sulla fucilazione di migliaia di meridionali subiscono ancora «Il complesso La Marmora», dal nome del generale che diresse per anni la repressione nel Mezzogiorno, prima di divenire capo del governo.

Achille Della Ragione, Napoli


Lei fa bene a prendersela, caro Della Ragione, ma badi che gli archivi non potrebbero altro che confermare quello che già si sa, si sapeva e si è sempre taciuto. Non la «rivisitazione», ma la «visitazione» storica sull'annessione del Regno delle Due Sicilie (che non è necessariamente filoborbonica: lo diventa per contrasto alle menzogne antiborboniche della storiografia risorgimentalmente corretta) può contare su una buona mole di documenti, di relazioni, di diari e perfino di materiale fotografico. A proposito sappia, caro Della Ragione, che presto uscirà in abbinato al Giornale una collana di libri (La biblioteca storica del Giornale) su vicende e personaggi di quel periodo. Cominciando con colui che fu all'origine di molte nostre avventure e disavventure: Napoleone. Certo, quello è un dente che ancora duole. Ancora si fa fatica non dico ad ammettere, ma solo a sospettare che i Savoia avallarono una guerra di conquista coloniale accompagnata da brutalità, soprusi ed efferatezze. Si preferisce continuare a credere che il Regno sia stato «liberato» e i sudditi dei Borbone volontariamente, entusiasticamente, si siano gettati nelle braccia dei piemontesi salvatori (salvo naturalmente pochi delinquenti, i «briganti», giustappunto). Sui Mille, su Garibaldi, sullo scappellamento (mai verificatosi) di Teano gli storici si dilungano, compiaciuti. Ma delle cannonate dell'esercito piemontese, cioè di un esercito che invase il Regno senza aver dichiarato guerra, zitti e mosca. Qualche riga su Gaeta che l'eroe Cialdini seppe da par suo costringere alla resa e che Persano, anticipando la vergogna di Lissa, cercò di espugnare dal mare, ma dovette filarsela -ovvero ritirarsi, ovvero fuggire- inseguito dai pernacchi che la guarnigione gli indirizzava dagli spalti. Per il resto, silenzio, anche su Civitella del Tronto, capitolata solo il 20 marzo del 1862. Finita, a viva forza, nel dimenticatoio Civitella s'è presa però una bella rivincita: la fortezza è infatti diventata meta di centinaia di migliaia di turisti desiderosi di toccar con mano, se così si può dire, la storia patria. Un successo che a qualcuno fa venire il mal di fegato, al Comune di Torino, per esempio.

Deve sapere, caro Della Ragione, che un paio di mesi fa i civitellesi si sono rispettosamente rivolti al sindaco Chiamparino per chiedere fossero loro restituite tre bocche da fuoco che i gloriosi piemontesi, una volta occupata Civitella, si portarono via quale trofei di guerra. Si tratta di due colubrine del Seicento e una bombarda, detta «la scornata», del 1741, particolarmente cara ai civitellesi perché, oltre a sparar palle sui piemontesi del generale Ferdinando Pinelli, le sparò anche sui soldati di Napoleone (gli stessi ai quali i «patrioti» giacobini napoletani, le Fonseche Pimentel eccetera, aprirono le porte non prima d'aver steso i tappeti rossi). Insomma, Civitella del Tronto cittadina tosta, è. E rivoleva i suoi cannoni. Ma la Torino sabauda glieli ha negati, consentendo solo un prestito della durata di un anno. Dopo di che dovranno tornare dove giacciono (probabilmente assieme ad altri trofei di guerra, come le teste mozze dei «briganti» chiuse in vasi pieni di formalina) da quasi centocinquant'anni: negli scantinati di qualche civico deposito torinese. Io sono uomo d'ordine e mai ho istigato alla sovversione. Ma invito i civitellesi a non restituire quei cannoni. Se li tengano. E se c'è da difenderli dai birri piemontesi; sappiano che mi offro volontario, pronto a salire sulle mura e a battagliare, ovviamente con le stesse armi che i lazzari di Gaeta opposero al grande ammiraglio Persano.(Paolo Granzotto)

(Tratto da: Il Giornale,20 agosto 2003)

«L’unico grande diplomatico del secolo XIX è stato Cavour e anche lui non ha pensato a tutto. Sì, egli è geniale, ha raggiunto il suo scopo, ha fatto l’unità d’Italia. Ma guardate più addentro, e cosa vedete? Per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, ma non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata ed esaurita (ma è stato proprio così?) ma che cosa è venuto al suo posto, per che cosa possiamo congratularci con l’Italia, che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del conte di Cavour? E’ sorto un piccolo regno di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, […] un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del suo essere regno di second’ordine. Ecco quel che ne è derivato, ecco la creazione del conte di Cavour!»
Fëdor Michajlovic’ Dostoevskij, Diario di uno scrittore, ed. it. a cura di Ettore Lo Gatto, Sansoni, Firenze 1981, 1877, Maggio-Giugno, capitolo secondo, pp. 925-926.

Le ferite del Risorgimento

Nel 1863 - è ben raccontato nel libro "La Rivoluzione italiana" di Patrick Keyes O'Clery, pubblicato anch'esso da Ares - il console inglese a Napoli, Bonham, denunciò le condizioni delle carceri partenopee ancor più atroci dopo l'arrivo dei piemontesi. E, dopo un dibattito parlamentare, l'Inghilterra spedì nell'Italia del Sud Lord Seymour e Sir Winston Barron che confermarono i termini della denuncia. In quello stesso anno, sempre nel Parlamento inglese, Disraeli disse: «Desidero sapere in base a quale principio ci occupiamo delle condizioni della Polonia e non ci è permesso di discutere su quelle del Meridione italiano. È vero che in un Paese gli insorti sono chiamati briganti e nell'altro patrioti, ma, al di là di ciò, non ho appreso da questo dibattito nessun'altra differenza». E, quando nel 1867 il generale pontificio Kanzler entrò a Monterotondo, dopo la battaglia di Mentana e la sconfitta di Garibaldi, un giornale di Londra registrò che gli abitanti lo avevano accolto come «un liberatore» anche perché «erano stati derubati di tutto dai garibaldini e le offese fatte alle loro donne li avevano particolarmente esasperati».
(Paolo Mieli  - 08/03/2011.Fonte: Corriere della Sera)
150 righe sull'Unità d'Italia
"Le due Italie" è un buon incipit per raccontare il Risorgimento
17 Marzo 2011
 
Anno 1796. Un popolo diviso. Un colpo d’occhio dato con serenità intellettuale e lucidità mentale sulla storia d’Italia degli ultimi duecentoquindici anni nel suo insieme, non può non coglierne come filo conduttore la violenza, frutto della divisione ideologica che mette radice in un preciso momento della nostra storia. Basti per il momento, al fine di introdurre il discorso, ricordare un fatto evidente quanto dimenticato: noi siamo l’unico popolo al mondo – di sicuro almeno nel mondo occidentale – che negli ultimi due secoli ha subito tre guerre civili, fra le quali la più nota, quella tra fascisti e partigiani, è in realtà di gran lunga la meno cruenta delle tre. Ben più tragica fu la guerra civile precedente, dal 1860 al 1865, che vide da un lato italiani piemontesi e «piemontesizzati» al seguito di Casa Savoia, e dall’altro italiani che non furono d’accordo a farsi piemontesizzare.
Stiamo naturalmente parlando della guerra condotta dal neonato Stato italiano contro i ribelli borbonici del Meridione, noti con l’equivoco appellativo di «briganti». Tratteremo in seguito tale triste pagina della nostra storia. Altrettanto tragica – soprattutto dal punto di vista ideologico – era stata la prima delle guerre civili, quella fra giacobini e insorgenti ai tempi dell’invasione napoleonica. Per iniziare a fornire una prima immediata spiegazione di tale fatto, occorre tener presente che c’è un anno fatidico nella storia degli italiani, una data di cui nessuno o quasi sa nulla, che mai si ricorda, e che invece svolge un ruolo d’importanza capitale, molto più del 1848, del 1861, del 20 settembre 1870, del 1915-’18, del 1922, anche dell’8 settembre ’43, e poi del ’45, del 2 giugno ’46, del 18 aprile ’48, e così via. È l’anno 1796. Come detto, questa data non dice nulla a nessuno, e anche il lettore forse sarà perplesso. Eppure è così. Il 1796 sta all’Italia come il 1789 sta alla Francia.
La differenza si situa in questo: che i francesi esaltano (o – pochi – condannano) in tutti i modi e in ogni momento il loro 1789; noi italiani abbiamo invece perduto la memoria di quell’anno, ricordato solo dagli esperti in materia nei loro libri e nei loro disertati convegni. Che cosa è accaduto di tanto importante nel 1796? È l’anno dell’invasione napoleonica, l’anno dell’importazione nella Penisola della Rivoluzione francese, imposta con le baionette, i cannoni, le stragi, i furti e profanazioni di un esercito invasore. È l’anno della nascita delle repubbliche giacobine e democratiche, sorte sulle spoglie degli antichi tradizionali Stati monarchici o aristocratici, comunque cristiani, della formazione di una aperta e perseguita coscienza rivoluzionaria, laica e repubblicana, nelle elités del nostro Paese. Ma è anche l’anno, d’altro canto, dell’inizio dell’Insorgenza controrivoluzionaria, vale a dire del più grande, drammatico ed eroico (e ancor oggi poco conosciuto) evento della storia degli italiani. Talmente drammatico ed eroico che lo si è cancellato dalla memoria collettiva, in quanto sgradito alla ideologia del Risorgimento; ed è per questo che nessuno coglie veramente fino in fondo l’importanza del 1796.
Il 1796 non è però solo tutto questo; è qualcosa in più. È l’inizio della «nuova storia» degli italiani116, è l’«anno del prima e del poi» (come François Furet, nella sua celebre Critica della Rivoluzione Francese, ha definito il 1789 per i francesi e per tutti gli occidentali) per noi italiani, lo spartiacque della nostra civiltà. È l’inizio della modernità in Italia. Prima di questa data l’Italia era una società cattolica (da due secoli di impronta controriformistica), i cui governi (monarchici o repubblicani che fossero) erano concepiti secondo un’idea sacrale e trifunzionale del potere; una società aristocratica e contadina, caratterizzata da un’organica armonia gerarchica (accettata serenamente anche dai ceti meno abbienti proprio per la sua connaturata struttura cristiana), che aveva prodotto una più che secolare concordia sociale117; né il riformismo illuminato e le idee anticristiane teorizzate nelle sempre più numerose e attive logge massoniche del XVIII secolo avevano influenzato minimamente le popolazioni, che, al
contrario, furono sempre ostili ai tentativi di sovversione dell’ordine cristiano. Ma con il 1796 ebbe inizio qualcosa di fondamentale importanza, un evento che ha mutato per sempre la storia e il modo di pensare degli italiani. Iniziò la «Rivoluzione italiana». Nel 1796 un uragano storico-politico-militare, nonché anche specificamente religioso, si abbatté sulla Penisola dopo secoli di pace, portando con sé una grave eredità: la divisione e l’odio ideologico. Il peso della modernità, come sempre.
È molto importante sottolineare questo aspetto: gli italiani erano in pace effettiva (tranne alcune zone settentrionali coinvolte loro malgrado nelle guerre delle grandi Potenze straniere ed eccetto rari momenti nel Meridione durante la guerre di successione) dai tempi delle guerre d’Italia, cioè da quasi tre secoli, e, soprattutto, erano idealmente uniti dal Medioevo; e, in ogni caso – a parte la divisione «guelfo-ghibellina», che comunque era viva anche al di fuori della Penisola e inoltre non implicava una reale spaccatura ideologica nel senso moderno e rivoluzionario del concetto, in quanto né i guelfi né i
ghibellini volevano sovvertire l’ordine costituito – essi erano uniti da sempre, nel senso che mai prima del 1796 avevano conosciuto l’odio della divisione ideologica, seppur divisi geopoliticamente: erano uniti nello spirito delle identità di vedute, credenze e tradizioni. Nemmeno la rivoluzione religiosa del XVI secolo li aveva divisi, considerato che la Penisola rimase sostanzialmente estranea al protestantesimo (a differenza, per esempio, della Francia, che, pur essendo ormai da tempo uno Stato unitario, conobbe le guerre civili di religione).
In quell’anno però giunse non richiesta la Rivoluzione francese, e con essa la guerra di un invasore ladro, prepotente e stragista. Soprattutto vi fu l’affermarsi della guerra fra gli italiani, la nascita dell’odio ideologico, vale a dire proprio ciò che gli italiani non avevano mai conosciuto prima. Dal 1796 non si è più «italiani» e null’altro: si è anche giacobini o insorgenti, massoni o cattolici, repubblicani o monarchici, «novatori» o «reazionari», democratici o conservatori, di «sinistra» o di «destra», «rivoluzionari» o «controrivoluzionari» ecc. È l’inizio della Rivoluzione italiana, e dunque l’inizio della divisione degli italiani: l’inizio della «guerra civile italiana».
Credo non si sia mai riflettuto abbastanza su quanto appena detto, che non si sia mai voluto realmente prendere coscienza del fatto che l’invasione napoleonica della Penisola abbia effettivamente cambiato (o meglio, iniziato a cambiare) per sempre l’identità stessa degli italiani, il loro Dna religioso, politico, sociale, anche istituzionale. Credo non si sia mai finora realmente compreso – almeno pubblicamente – quanto dagli eventi di fine Settecento e inizio Ottocento dipendano le drammatiche vicende della storia nazionale non solo del XIX secolo ovviamente (Risorgimento in primis), ma anche del XX secolo: solo per fare alcuni accenni evidentissimi, come negare che il giacobinismo abbia introdotto nella Penisola non solo lo spirito repubblicano, ma anche l’impronta laicista e anticattolica nonché la tendenza al totalitarismo? E, d’altra parte, suscitando la reazione degli insorgenti e del clero fedele a Roma, lo spirito antimoderno e tradizionalista di estesi ambienti del mondo cattolico? Come non vedere allora in tutto ciò le radici delle divisioni degli italiani negli ultimi due secoli?
Pochi italiani confluirono nelle file dei rivoluzionari, aderendo al giacobinismo e divenendo di fatto collaborazionisti dell’invasore. Erano pochi, ma «erano». Ed erano italiani, che scelsero di servire la Rivoluzione. Simultaneamente, di fronte a questa novità tanto inaspettata quanto grave e coinvolgente(monarchie abbattute, sovrani in fuga, Papi arrestati, chiese profanate e palazzi e musei svuotati, monti di pietà saccheggiati, repubbliche rivoluzionarie asservite all’invasore, fiscalismo depauperante, e via continuando), centinaia di migliaia di italiani si trovarono costretti – volenti o no – a compiere anch’essi la prima scelta fondamentale, e decisero di rimanere fedeli all’antica civiltà tradizionale, alla società cattolica e sacrale, ai loro legittimi governi, e presero le armi contro l’invasore e i democratici a esso asserviti. Questa fase durerà fino al 1799, e comunque sporadicamente fino alla caduta di Napoleone. Ma non finisce certo così.
È proprio negli anni della Restaurazione che, sulla base dell’esperienza napoleonica in Italia, si passa alla realizzazione del processo risorgimentale: da un lato vi era chi lo rifiutò, e fra costoro ci poteva essere diversità di vedute strategiche, di impostazione ideologica su punti dottrinali non chiariti, ma unica era la scelta di campo; dall’altro, fra coloro che vi aderirono seppur nelle più differenti maniere, dominava invece la divisione ideologica e strategica: dai settari carbonari o buonarrotiani ai mazziniani, dai monarchici ai repubblicani, senza considerare la divisione tra federalisti monarchici e repubblicani, tra unitaristi repubblicani e monarchici. I contrasti continuarono poi nei decenni a venire, dopo l’unificazione, e soprattutto si acuirono nel XX secolo, fino alla tragedia della guerra civile fra fascismo e antifascismo, da cui ancora non siamo del tutto guariti. La nostra attuale Repubblica è l’unica al mondo che si fonda su un antivalore; su un principio di odio e divisione – indipendentemente da come si voglia poi giudicare tale principio – fra i suoi stessi cittadini.
È questo uno dei risultati della Rivoluzione italiana: la divisione istituzionalizzata, direi costituzionalizzata, fra gli italiani. È la guerra civile italiana. La storia repubblicana è ancora una storia di odio, al di là della ricostruzione postbellica e del relativo sviluppo economico: oltre all’incancrenirsi della divisione fra Nord e Sud, che ha condotto allo sviluppo delle tematiche secessioniste da un lato e allo strapotere della criminalità organizzata dall’altro, l’odio è sempre e anzitutto di natura ideologica: il terrorismo degli ultimi decenni è manifesto segnale di un mai terminato stato di guerra civile latente. Latente anche ai nostri giorni: non intendo entrare nell’attualità politica, ma non può non apparire evidente a tutti come le differenze ideologiche ancora oggi dividano gli italiani in maniera drammatica, comunque differente dalla normale dialettica democratica degli altri grandi Paesi dell’Occidente. Insomma, tutto ciò dovrebbe essere sufficiente senz’altro per porre seriamente la questione della comprensione di che cos’è che non va nella storia degli italiani.
La Rivoluzione francese, quella inglese, le guerre civili americana e spagnola, nonché le rivoluzioni russa e cinese, e altre ancora, sono stati eventi tremendi, forse presi in sé anche più gravi dei singoli fattori di odio e morte che gli italiani hanno conosciuto dal 1796 in poi; e tuttavia sono sempre stati eventi circoscritti nel tempo, finiti. Si tratta questo di un punto fondamentale: tutti i popoli coinvolti nelle vicende ricordate (e vari altri) hanno regolato anch’essi i propri conti tramite guerre civili e rivoluzioni, talvolta di violenza inaudita (è l’inevitabile prezzo dell’ideologismo rivoluzionario della modernità): ma in ultimo li hanno pur chiusi; o almeno momentaneamente «soffocati».
Noi non abbiamo mai finito di regolarli, anzitutto proprio a livello ideologico. Certo, siamo in pace dal 1945: ma è una pace «esterna», non interna. Conclusa la guerra civile, Francisco Franco costruì subito il più grande cimitero della Spagna (forse del mondo) per raccogliervi tutti i caduti. In Italia sarebbe mai immaginabile una cosa del genere, nel 1946 o oggi dopo sessant’anni? Chi può negare che ancora oggi viviamo in un clima politico avvelenato, segnato dalla continua delegittimazione dell’avversario? È ovvio che di esempi al riguardo se ne potrebbero enumerare migliaia, e non è nostra intenzione, come detto, scendere nell’attualità politica. Ciò che interessa dire è che ancora oggi, e forse più di ieri, la situazione politica italiana vive in perpetua fibrillazione, in un rovente clima di rischio latente. La realtà è che ciò è sempre avvenuto in Italia dal 1796, e ancora oggi si ripropone.
Ha scritto in merito Paolo Mieli: «Alle origini del Risorgimento, solo ed esclusivamente per come sono andate le cose, senza colpe particolari, c’è dunque una sorgente di acqua inquinata che ha infettato il corso del fiume della storia italiana impedendo al nostro Paese di diventare una democrazia come tutte le altre. Una democrazia in cui non si debba ricordare ad ogni ora che si è tutti su una stessa barca come se si dovesse costantemente fare i conti con qualcosa di oscuro, di irrisolto che è alle origini di tutto. Cosicché ci si possa sanamente dividere e contrapporre senza avvertire il pericolo che vada a monte l’intera dialettica democratica». Dopo due secoli appare sempre più evidente il riemergere negli italiani di quella frattura ideologica mai superata. Perché? E perché c’è stata, ed esiste ancora oggi? Perché questo dramma profondo nella storia degli italiani negli ultimi due secoli?
Una seria risposta a tali quesiti richiede a mia opinione l’approfondimento della guerra condotta all’identità italiana in nome dell’unificazione nazionale. Ci si potrà accorgere, forse, che il giudizio di Mieli, vero nella sostanza, è forse troppo benevolo nell’affermazione «solo ed esclusivamente per come sono andate le cose, senza colpe particolari». Ci si potrà accorgere, forse, che le colpe ci sono, e che le cose sarebbero potute andare in maniera differente.
Prima del 1796: il riformismo illuminato. In realtà, se il 1796 segna l’inizio cruento della Rivoluzione in Italia, già nei decenni precedenti il campo aveva cominciato a essere parzialmente seminato dai «novatori» e dalle istanze di cambiamento (proprio come, mutatis mutandis, avveniva per la Francia prerivoluzionaria). Alcune di queste ebbero realmente una portata ideologica rivoluzionaria e sovversiva, soprattutto dal punto di vista religioso. Per la prima volta dai tempi della cristianizzazione d’Italia, dei principi legittimi iniziavano un’azione di limitazione non solo dei poteri della Chiesa (anticurialismo), ma anche dello stesso sensus religiosus delle popolazioni non sporadica e motivata da contrasti momentanei, bensì pedissequamente ricercata e voluta per ragioni ideologiche. L’Italia del Settecento fu per eccellenza il Paese dell’esperimento del «riformismo illuminato» e vari fattori favorivano tale situazione: l’«arretratezza» – dal punto di vista illuministico, naturalmente...

(Tratto da Massimo Viglione, 1861. Le due Italie. Identità nazionale, unificazione, guerra civile, Ares 2011. Tutti i Diritti Riservati).

 

Per ultimo mi sono conservata la rigorosa e accurata recensione pubblicata da Gianfranco Franchi,detto Lankelot,il 21 giugno 2010,al volume pubblicato da Giordano Bruno Guerri,Il sangue del sud.Antistoria del risorgimento e del brigantaggio,da me letto e apprezzato.

Guerri Giordano Bruno
 
 
Gio, 21/10/2010 - 19:12 — franchi

Altro che banditi incivili e incolti: i briganti che s'opposero alle truppe savoiarde erano patrioti ribelli, contadini esasperati dall'avidità e dallo sfruttamento dei latifondisti, cittadini delusi dalla mendace propaganda garibaldina. E quella che venne combattuta tra 1861 e 1870 fu la prima guerra civile italiana. Parola del padre dell'Antistoria degli italiani Lo storico più coraggioso, spirituale e anticonformista del nostro secondo Novecento, l'etrusco Giordano Bruno Guerri, celebra con la disorientante onestà di sempre i 150 anni dell'Unità d'Italia pubblicando Il sangue del Sud. Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio (Mondadori, 300 pp., euro 20), una lettura penetrante e lucida delle vicende post-unitarie, vicende fondanti per determinare incomprensioni, ostilità e inimicizie tra le due metà della nazione. Lo storico senese ribadisce che la repressione del “brigantaggio” fu una guerra civile, insabbiata nei libri di scuola: anche Angelo Del Boca, qualche anno fa, in Italiani, brava gente? (Neri Pozza) già lamentava «non un cenno alla grande alleanza politica tra le classi dominanti del Nord e i latifondisti del Sud, a tutto danno delle classi subalterne». I briganti andrebbero chiamati con un altro nome nei libri di storia: ribelli. Tenendo presente, avverte Guerri, che è impossibile stendere una vera storia documentata del brigantaggio, perché larga parte dei documenti sono stati distrutti o censurati. Celebrare a dovere i 150 anni dell'Unità d'Italia potrebbe significare impegnarsi a «rintracciare i documenti mancanti, forse ancora nascosti e dimenticati». Perché senza memoria e senza giustizia un popolo cresce sghembo. E non impara a rispettarsi..

La storia del nostro Risorgimento è condizionata e contaminata da una retorica che ha costruito, nell'immaginario dei cittadini italiani, un passato leggendario fondato sull'eroismo e sul martirio d'una minoranza di combattenti che credevano nel Bene. Quel Bene era la fondazione dell'Italia. Le cose non stanno proprio così, e non ha senso raccontarsi favole. Serve, secondo il maestro Guerri, una «profonda opera di revisione storiografica». Perché s'è trattato d'una guerra civile: e perché a raccontarla, come sempre, è stato il vincitore. Un vincitore che ha imposto la damnatio memoriae sui vinti, riducendo i suoi massacri alla stregua di semplici operazioni di polizia. Guerri vuole che il Risorgimento sia recuperato per intero, nel bene e nel male. Perché è dall'Unità in avanti che questo ha saputo diventare un grande Paese. E cercare la verità a proposito di quanto è accaduto non può macchiare l'orgoglio della nascita di una nazione.
 
L'Unità d'Italia non seppe integrare tradizioni, culture e lingue diverse: Guerri sostiene che l'educazione all'italianità dei meridionali sia passata per una contrapposizione rancorosa. “Noi”, portatori di giustizia civiltà e legalità, contro “loro”, i briganti. A dividere le parti, spiega lo storico senese, «una diversità radicale e radicata, non un'inconciliabilità momentanea. Qualcosa di molto simile a un'estraneità».
 
Che significava la parola “brigante”? Guerri insegna che a introdurla furono i francesi: nel 1829 i nostri linguisti la consideravano ancora un neologismo. Prima ci si serviva di parole come “bandito” o “fuorbandito”. Secondo lo storico senese, oggi chiameremmo “briganti” dei “terroristi”, o dei “partigiani”. Oppure, aggiungiamo noi, dei “guerriglieri”. La ribellione di quanti non intendevano accettare l'Italia sabauda venne battezzata, insomma, con un francesismo d'accatto: “brigantaggio”. Adottato come sinonimo di “banditismo”.
Chi era, allora, il “brigante”? Tante erano le anime dei briganti. Erano combattenti ribelli, erano lavoratori esausti, erano cittadini che rifiutavano gli anni imposti dalla leva militare obbligatoria, nel nuovo Stato, ed erano nostalgici borbonici. Erano a volte disertori, a volte delinquenti, a volte romantici. «Terra, giustizia, onore, tradizione, orgoglio, cacciata dello straniero: erano questi i concetti che invitavano i briganti alla battaglia», insegna Guerri. Secondo lo storico Del Boca invece, si trattava di «almeno 10mila soldati dell'esercito borbonico, migliaia di braccianti senza terra e paesani che rifiutavano la leva obbligatoria e gli inasprimenti fiscali». Tendenzialmente, erano fiancheggiati dal clero. Erano tutti molto religiosi, e molto scaramantici.
 
Non mancavano le donne: secondo Guerri, si trattava di «partigiane ante litteram, antesignane di un femminismo istintivo e rabbioso, ribelli stanche di essere confinate – da sempre – al letto, al focolare e ai figli. Un esercito di nomi e di storie senza volto, un'escrescenza della storia, per decenni considerata ingiustamente marginale». E in questo libro finalmente trattate con rispetto, e con diversa sensibilità.
 
Quanti erano i briganti? Erano parecchi. Guerri riferisce che nel 1861 agivano, dall'Abruzzo in giù, 216 bande. Secondo Del Boca, si trattò di 80mila gregari divisi in circa 400 bande. Guerri spiega bene la loro visione della realtà: «I briganti non si sentivano 'italiani'. I nemici erano usurpatori, colonizzatori arrivati per conquistarli e per cancellare la loro storia, i costumi, i legami e le appartenenze». E com'erano, esteticamente? Considerando i tempi atroci che si vivevano allora, la pessima alimentazione, la scarsissima igiene e il sovrumano analfabetismo, oggi ci sembrerebbero mostri: non soltanto certi contadini non si lavavano quasi mai... I briganti «immaginiamoli magrissimi, di statura bassa, membra grosse, capelli ruvidi e irti, denti guasti, scuri, mancanti. Mani come pale, grosse di calli, dita non fusellate, corte, unghie nere. I pidocchi fanno parte della vita quotidiana, come l'aria». E Guerri parla dei contadini, non di quelli che sono andati alla macchia. In quel frangente le cose peggiorano con una certa facilità.
Questa guerra venne combattuta con una legge, la Legge Pica dell'agosto 1863, con cui il governo italiano – sacrosanto ricordarlo – «impose lo stato d'assedio, annullò le garanzie costituzionali, trasferì il potere ai tribunali militari, adottò la norma della fucilazione e dei lavori forzati, organizzò squadre di volontari che agivano senza controllo, chiuse gli occhi su arbitrii, abusi, crimini, massacri». Caddero, secondo le cifre che Guerri considera più attendibili, addirittura attorno alle centomila persone tra i meridionali, complici i caduti per stenti, prigionia, disperazione, suicidio. Morale della favola? «Oggi, non si può più tacere che quella conquista comportò episodi da sterminio di massa».
 
Non mancarono episodi di violenza cieca e gratuita per mano sabauda, come i massacri di Pontelandolfo e Casalduni, completi di saccheggio e stupri: nascevano per rappresaglia, costituirono un focolaio d'odio. In entrambi i casi non ci fu nessun processo. Non c'è mai stata giustizia. E qualcuno voleva non ci fosse nemmeno memoria. Rumiz, su La Repubblica, in agosto, scriveva: «Quattrocento per quaranta. Dieci uccisi per ogni soldato, come alle Fosse Ardeatine. Oggi a Pontelandolfo c'è solo un monumentino con tredici nomi e una lapide in memoria di Concetta Biondi, violentata e uccisa dai soldati. Mancano centinaia di nomi, scritti solo nei registri parrocchiali. Il sindaco: "A marzo siamo stati finalmente riconosciuti come "luogo della memoria". Ma non ci basta: vogliamo essere "città martire" e che questo nome sia scritto sulla segnaletica. Vogliamo che l'esercito riconosca la sua ferocia». Pino Aprile, in Terroni, aggiunge: «Ma a Roma, i nazisti (oltre la strage delle Fosse Ardeatine) non ebbero poi il coraggio di distruggere anche il quartiere in cui era avvenuto l'attentato, come pure avevano ipotizzato. A Pontelandolfo e Casalduni si fece». Paesi che nel 1861 avevano rispettivamente cinquemila e tremila abitanti oggi ne hanno meno della metà. Questo il risultato.
Economicamente, il Regno delle Due Sicilie era decisamente più ricco del Regno del Piemonte, almeno per quanto riguardava le riserve auree. Gli abitanti erano gli stessi, nel 1860: 9 milioni. Per i primi trent'anni, l'Italia del Sud fu ben sfruttata dal Piemonte, da questo punto di vista. D'altra parte, nelle terre borboniche non esistevano strade, se non in 227 comuni su 1848, e i chilometri di ferrovie erano decisamente pochi. Eppure, ad esempio, «un'infinità di progetti e decreti stabilivano la costruzione di nuove strade; quasi tutti rimasero impigliati nei lacci della burocrazia e nei contrasti tra comuni, signori, preti e quanti, tra vassalli e valvassori, si arrogassero il diritto di avere voce in ogni decisione. Il morbo è arrivato fino a noi».
 
Guerri ricorda che la base dell'economia meridionale restava l'agricoltura, fondata sul latifondo: i piemontesi non seppero risolvere il nodo della questione agraria, determinando così una delle principali cause del brigantaggio: lo scontento abnorme dei contadini. Che sognavano, naturalmente, una equa redistribuzione dei grandi possedimenti terrieri. A qualcuno di loro Garibaldi aveva promesso terra: ma quella delle camicie rosse non era stata affatto una liberazione sociale. Niente affatto.

Tutti si ricordano una frase di Massimo d'Azeglio: «Si è fatta l'Italia, ma non si fanno gli italiani». Nessuno ricorda cosa pensava davvero l'intellettuale piemontese: «La fusione coi napoletani mi fa paura; è come mettersi a letto con un vaiuoloso». Questa nostra amnesia racconta molto del nostro desiderio di mantenere un approccio costruttivo ed edificante, solare e dialettico, per arginare e risolvere i contrasti tra le due metà del Paese. Guerri tiene a puntualizzare che diversi tra i principali padri della patria, come Gioberti, Rosmini, d'Azeglio, Cavour, pensavano a un Regno d'Italia ben diverso, limitato a Piemonte, Lombardia, Veneto e ducati emiliani: «in pratica quella che oggi viene chiamata Padania», chiosa lo storico, ribadendo che si trattava delle regioni più piemontesi o “piemontesizzabili”. L'errore di piemontesizzare il Regno delle Due Sicilie ha determinato un secolo e mezzo di incomprensioni, risentimenti, invidie, vittimismi e gelosie. Probabilmente, peraltro, ha originato un'ondata di emigrazione di straordinaria intensità, prima verso altre nazioni o altri continenti, poi verso il settentrione. E negli ultimi 12 anni le cose non sono state così diverse, nonostante si sia fatto tutto il possibile per nasconderlo, complice la propaganda berlusconiana. 700mila cittadini dell'Italia meridionale hanno dovuto abbandondare casa, famiglia e tessuto sociale per andare in cerca di fortuna a settentrione. Laddove c'è qualcuno che sembra trattarli come creature antropologicamente dfferenti: e non da ieri, da sempre, ovvero da quando chiamava brigantaggio la loro ribellione.

Probabilmente queste parole non faranno piacere ai vari Lucio Villari,Giuseppe Galasso,Piero Angela e compagnia cantante,ma questi sono fatti e non chiacchiere di parte.Non sono pregiudizi storici,cioè giudizi storici prevenuti.

A tutto ciò desidero aggiungere che da una stima accurata si è calcolato che dal 1861 in avanti sono andati via dall'Italia 25 milioni di persone.La maggior parte di essi erano meridionali.Tutto ciò grazie all'unificazione(infatti,prima non c'era emigrazione!),cioè all'ingrandimento del Regno sardo,cioè il Piemonte,cioè la Casa Savoia.Con quale coraggio si vuole parlare di unificazione,di unità,anche da parte di "napoletani" assurti alle più alte cariche dello stato? Mistero.

A proposito di briganti e brigantaggio raccomando ai nostri sedicenti storici di rinfrescarsi la memoria con la lettura del seguente volume che potrà essere per loro molto istruttivo e illuminante:

Questo libro li informerà sulle "imboscate,sparatorie,torture,rapine,omicidi efferati...Non è il selvaggio West ma il selvaggio Piemonte preunitario(quello che doveva mangiarsi l'Italia foglia a foglia e metttersi alla testa del movimento di unificazione,n.d.a.),dove scorrazzano delinquenti isolati e bande di fuorilegge che non hanno nulla da invidiare,se non la fortuna storiografica,a quelli in azione nel Meridione.Dal crepuscolo del regno di Sardegna all'arrivo delle baionette francesi,fino alla Restaurazione e agli albori dell'unità d'Italia,è un susseguirsi di briganti pronti a lavorare di coltello per mettere le mani sul bottino di vittime occasionali".Ovviamente costoro non destarono l'interesse dello pseudoscienziato torinese Cesare Lombroso,perchè lui,per elaborare la propria teoria pseudoscientifica dell'uomo delinquente,studiava soltanto le dimensione dei crani dei briganti meridionali,attenendosi alla fisiognomica,disciplina pseudoscientifica di antichissime ogirini.Il lettore avrà notata l'abbondanza di pseudo in queste righe,ma ricordi che sono inquadrati nel più ampio contesto del colossale pseudo dell'unificazione della penisola,come del resto lascia capire il titolo di questa Sezione.

Dopo tutti questi autorevoli giudizi,anche recentissimi,passo a dire le cose come le vedo io,da napoletano in esilio.

A questo argomento ho dedicato buona parte dei miei studi, spinto dalla mia napoletanità e dall'amore della verità.Quindi sono non solo informato,ma soprattutto documentato,come i tanti altri,ormai sempre più numerosi (a dispetto di quanti vogliono negare anche l'evidenza dei documenti), che su questo argomento hanno scritto,nel tempo,una gran mole di testi,ovviamente aborriti dalla più parte degli "storici" accademici,quelli che per definizione,sono considerati storici,mentre invece sono soltanto sedicenti storici,prezzolati estensori della vulgata risorgimentale ufficiale,che hanno ottenuto la cattedra o dai loro confratelli massoni o dai loro compagni comunisti.

Da questa introduzione il lettore può già facilmente capire sia come la penso sia dove andrà a parare tutto il mio discorso,che non prende,quindi,le mosse dai libri di scuola o dai ponderosi testi universitari e specialistici,ma si rifà ai fatti,quelli veri,cioè le cose che successero già da prima del famigerato 1860.

Secondo la secolare politica bellicista di casa Savoia,l' "l’Italia è un carciofo che bisogna mangiare foglia per foglia"(attribuito da alcuni a Vittorio Amedeo II, da altri a Carlo Emanuele III suo figlio,ma secondo il FUMAGALLI [cfr.G.Fumagalli,Chi l’ha. detto?, 7ª ed.; Milano, Hoepli, 1921, p. 414-415] la paternità del motto si deve restituire a Carlo Emanuele I).Chiunque sia l'autore di cotanto detto dimenticò che alcune qualità di carciofo hanno le spine e,quindi,bisogna essere guardinghi quando li si maneggia e mangia,altrimenti si rischia di fare la fine di Vittorio Emanuele III o del suo pronipote ballerino di cui è perfino inutile riportare il nome chè non ha nulla a che fare con la storia.

Infatti,i prodromi di tutta questa squallida vicenda che va sotto il pomposo nome di "unità d'Italia" vanno ricercati già negli anni '30 del XIX secolo,e precisamente nel 1831.Si tenga comunque presente che Ferdinando II di Borbone,nato nel 1810,era salito al trono appena il 7 novembre 1830.

Oltre alle mie modeste considerazioni,seguono gli scritti,documentati,di studiosi contemporanei che la sanno più lunga di me e ai quali volentieri mi rifaccio e cedo la parola.

Correva l'anno 1831, che segnò la fine definitiva dei moti carbonari. L’entusiasmo provocato dall’attivismo del giovane re accese le speranze del movimento liberale italiano, tanto che gli fu offerta la corona d'Italia: «in un congresso del partito liberale riunito a Bologna, si offrì, per mezzo del giovane esule calabrese Nicola del Preite, a Ferdinando di Napoli, la corona d'Italia, ch'egli non accettava, per non sapere che cosa fare del Papa, e tenne sempre fede al segreto al De Preite, volle che nel regno ritornasse, e spesso il rivedeva con speciale benevolenza. Certamente fino al 1833 nessun principe italiano aveva dato ragione ai liberali come Ferdinando II; se egli avesse voluto, la storia d'Italia mutava, ma egli non sentì il palpito dell'italianità, volle rimanere re assoluto, indipendente da tutti, anche dall'Austria" (daFerdinando II di Borbone di Alfonso Grasso; e da Nisco Nicola, Storia del reame di Napoli dal 1824 al 1860, Napoli, 1908, vol. II, p. 27-28).

Da allora cominciarono tutti i guai non solo di Ferdinando II,ma del Regno delle Due Sicilie e dei meridionali tutti,perchè dietro quell'offerta c'era la massoneria mondiale,con sede a Londra,che disponeva l'andamento della storia del mondo e che ancora oggi in tandem,London-New York,decide i destini del mondo sotto tutti i punti di vista:politico-economico-finanziario,socioculturale,militare.(E decide anche se dobbiamo credere o no agli UFO!),

Va anche detto che la medesima offerta fu fatta (ovviamente sempre in gran segreto!) al re di Sardegna,l'enigmatico Carlo Alberto,nato nel1798 e salito al trono il 7 aprile 1831. Con la sua accettazione cominciarono tutti i guai degli italiani.

Ma ritorniamo a Ferdinando II. In politica estera Ferdinando cercò di mantenere il Regno fuori dalle sfere di influenza delle potenze dell'epoca. Tale indirizzo era concretamente perseguito pur favorendo l'iniziativa straniera nel Regno, ma sempre in un'ottica di acquisizione di conoscenze tecnologiche che consentissero, in tempi relativamente brevi, l'affrancamento da Francia ed Inghilterra; il che rese il sovrano (ed il Regno) inviso agli altri Stati europei e politicamente isolato.Va bensì esplicitato che nel 1816il Governo britannico si era fatto concedere da Ferdinando I il monopolio dello sfruttamento dello zolfo siciliano (il 90% della produzione mondiale) dietro un pagamento quasi irrisorio.Ricordiamo che lo zolfo era una materia d'importanza strategica, con la quale si produceva la polvere da sparo; detenere il suo monopolio significava dominare una fonte essenziale per la guerra.Ferdinando II, deciso a ridurre la tassazione attraverso l'abolizione della tassa sul macinato, gabella invisa alle classi disagiate, decise di affidare il monopolio ad una società francese che concedeva un pagamento più che doppio rispetto all'Inghilterra: questa misura innescò la cosiddetta "questione degli zolfi".

Il Primo Ministro britannico,Parlmerston,mandò subito una flotta militare davanti al Golfo di Napoli, minacciando di bombardare la città.Ferdinando II  tenne duro, preparando la flotta (all'epoca assai sviluppata) e l'esercito alla guerra. La guerra fu sfiorata,ma evitata grazie alll'intervento di Luigi Filippo re dei Francesi: il re dovette rimborsare sia gli inglesi che i francesi per il presunto danno arrecato (da Wikipedia, Regno delle Due Sicilie; e da Agli inglesi il monopolio dello zolfo siciliano - 24 settembre 1816; e Il Regno delle Due Sicilie prima dell'unità [seconda parte] in Positano News, 14/11/2009).

La "questione degli zolfi ",scoppiata nel 1836, rappresenta un nodo quasi cruciale,sia perchè con essa ha inizio un lungo contenzioso con la grande Inghilterra imperialista e massonica sia perchè contribuisce a far mettere in luce un personaggio che avrà un'importanza decisiva nelle sorti del Regno delle Due Sicilie,l' avv.Liborio Romano.Ma vediamo come sintetizza,da par suo,questa vicenda Carlo Alianello: "Fin dal1816 vigeva tra Londra e Napoli un trattato di commercio, dove l'una nazione accordava all'altra la formula della "nazione piú favorita". Subito ne approfittarono i mercanti inglesi per accaparrarsi l'intera, o quasi, produzione degli zolfi, allora fiorente in Sicilia. Compravano per poco e rivendevano a prezzi altissimi. Di questo traffico poco o nulla si avvantaggiava il Reame e meno ancora i minatori e i lavoranti dello zolfo. Ferdinando II volle reagire a questo sfruttamento, tanto piú che, avendo sollevato la popolazione dalla tassa sul macinato, aveva bisogno di ristorare le casse dello Stato in altro modo. Fece perciò un passo forse audace: diede in concessione il commercio degli zolfi a una società francese (Taixe Ayard, ndr) che lo avrebbe pagato almeno il doppio di quanto sborsavano gli inglesi. Dies irae:Palmerston nel 1836 mandò la flotta nel golfo di Napoli, minacciando bombardamenti, sbarchi e peggio. Ferdinando II non si smarrí, e ordinò a sua volta lo stato d'allarme dei forti della costa e tenne pronto l'esercito nei luoghi di sbarco...". Nella vicenda si inserisce don Liborio, che difende le "ragioni" dell'Inghilterra contro la politica economica del Re. Il Romano aveva tra i suoi clienti un certo Sir Close, che durante la controversia col governo di Napoli era stato scelto dal Palmerston per curare gli affari inglesi. Il Close scelse come patrocinatore il Romano. Il Romano, invece di consigliare al suo cliente, per ragioni di imparzialità, un arbitrato internazionale da svolgersi in un paese neutrale "compose una memoria in cui si opponeva con forza al nuovo contratto sostenendo le sue ragioni con tanto vigore che la polizia ne vietò la stampa" (Guido Ghezzi, Saggio storico sull'attività politica di Liborio Romano, Firenze, Le Monnier, 1936).

Nell’inverno del 1835 il fratello di Ferdinando II, il principe di Capua, s’innamorò di una bella Irlandese di nome Penelope Smith (cfr. Acton 1962: 115). Al compleanno del re informò Ferdinando II dei suoi progetti di matrimonio. Ferdinando II con tutta chiarezza gli annunciò che non approverebbe mai acconsentito ad un matrimonio con una borghese (cfr.ibid.: 116). Dopo un forte scontro, il principe di Capua fuggì con la sua futura moglie. Il 12 marzo 1836 Ferdinando II emanò un decreto,in base al quale nessun membro della famiglia reale, senza il suo permesso, potesse lasciare il paese e che un matrimonio senza la benedizione del re sarebbe da considerarsi nullo (cfr. ibid: 117). Il re giustificò il suo modo di agire, col fatto che doveva esercitare l’autorità necessaria per salvaguardare lo splendore del trono nella sua purezza (cfr. ibid.). Temple scrisse a suo fratello Palmerston il 4 aprile 1836: anche se fosse stato celebrato un matrimonio legittimo di fronte alla Chiesa Cattolica, esso resterebbe privo di valore per quanto riguarda i diritti civili e politici, di modo che Miss Smyth non potrebbe portare ne il titolo ne il nome del Principe Carlo, e i loro figli non verrebbero considerati come appartenenti alla famiglia reale…” (cfr. ibid:118). Nel frattempo Carlo aveva sposato Penelope a Grettna Green. Ma Ferdinando II rimase fermo nella sua decisione. Più tardi intimò che considerasse il matrimonio come "la la main gauche“, che rinunciasse al suo titolo e che andasse in esilio a Brünn (cfr. ibid.: 122). Palmerston si schierò dalla parte del principe e sua moglie per trarne vantaggio politico (cfr. ebd.: 123). Mise sotto la sua protezione il principe rifugiato in Inghilterra (cfr.Curato,1989: 42). Per i numerosi napoletani in esilio, il principe divenne simbolo vivente di una vittima del dispotismo (cfr. Acton 1962: 388). Il fatto che Palmerston seguisse obiettivi personali e politici, diventa più chiaro nel contesto che in Inghilterra esistesse e tuttora esiste un Royal Marriage Act. Il New York Sun spiega la logica che si nasconde dietro tutto questo: “Quando l´Inghilterra e il popolo inglese accusano qualcuno di un delitto che essi stessi compissero bisogna suonare le campane di allarme. Soprattutto quando parlano di moralità vuol dire che c´e qualche annessione in vista” (De Biase 2002: 61). Actoninterpreta il sostegno del Principe di Capua come un insulto a Ferdinando II (cfr.Acton1962:143). Il Principe di Capua visse in seguito a Londra dove accumulò una montagna di debiti. Palmerston pretese che il re estinguesse i debiti che ammontavano a 36.000 ducati(cfr.ibid.: 144). In numerose filippiche Palmerston sostenne la richiesta che Penelope Smith ricevesse il titolo di principessa perché in effetti voleva solo essere "la moglie del proprio marito” (cfr.ibid.: 148). Inoltre Palmerston s’impegnò affinché il Principe di Capua ricevesse mensilmente 4000 ducati. Palmerston accusò Ferdinando II di non aver mai reso pubblico il testamento di suo padre e che si sarebbe appropriato di nascosto dei beni lasciati in eredità a Carlo (cfr. Campolieti 2002: 227). La tattica di Palmerston consisteva nel fomentare sempre di più l’odio tra i due fratelli (cfr.ibid.). Il Principe di Capua divenne emblema della propaganda antiborbonica (cfr. ibid.). In che modo Palmerston strumentalizzò l’accaduto s’intende dalle sue dichiarazioni sproporzionate verso il deputato napoletanoVersace: "Stia attento il suo re! Ha lasciato alla mercè di tanti desideri insoddisfatti, e delle pretese dei tanti creditori, il principe Carlo. E suo fratello si vendicherà. Si dichiara pubblicamente vittima dell´insensibile congiunto, farà scrivere e rilevare cose, anche false, che metteranno contro Ferdinando tutta l´opinione pubblica internazionale “.

Come puntualmente accadde!

Mio commento personale a tutto questo:questa è l'Inghilterra,quella che ora si è ridotta alle sceneggiate matrimoniali mediatiche.Verrà anche il suo momento in cui pagherà il dovuto per il male perpetrato per secoli,politicamente e massonicamente! 

I PLEBISCITI

Ferdinando, venutosi a trovare tra due fuochi, cedette e annullò il nuovo contratto, ma dovette pagare i danni. Leggiamo ancora Alianello: "Pareva dovesse scoppiare la scintilla da un momento all'altro. Ci si mise fortunatamente di mezzo Luigi Filippo e la Francia prese su di sé la mediazione. Il risultato fu che lo Stato napoletano dovette annullare il contratto con la società francese e pagare gli inglesi per quel che dicevano d'aver perduto e i francesi per il mancato guadagno. E' il destino delle pentole di terracotta costrette a viaggiar tra vasi di ferro. Chi ci rimise fu il povero regno napoletano; ma l'Inghilterra se la legò al dito come oltraggio supremo".

Ecco come si mise in luce il massone Liborio Romano, l'uomo che nel 1860 condurrà alla rovina il Regno delle Due Sicilie, con la scusa di voler evitare la guerra civile a Napoli.

Il cosiddetto Risorgimento italiano “non fu che un episodio dell´imperialismo inglese ” (Antonio Nicoletta, "E furon detti briganti".Mito e realtà della 'conquista' del sud",2001,p.49).  

La verita sugli uomini e sulle cose del Regno d'Italia / rivelazioni di J.A. agente segreto del conte Cavour;a cura di Elena Bianchini Braglia;presentazione di Walther Boni.Sulla copertina l'autore risulta essere Filippo Curletti; mentre per A. Savelli in Archivio storico italiano,1911,p. 222, l'opera è frutto della collaborazione di Curletti e Griscelli.

 
Questo testo (pubblicato dopo il 1860, è molto illuminante.Dovrebbe essere letto e meditato dai tanti "storici" che pullulano nelle nostre patrie università,dai rappresentanti delle Istituzioni che parlano a vanvera,e anche dai nostri politici da strapazzo,uomini culturalmente molto a digiuno.
Filippo Curletti, rifugiato in Svizzera e condannato in contumacia quale mandante di una banda di malviventi piemontesi, per vendetta scrive un memoriale (in francese). Il poliziotto racconta lo svolgimento dei plebisciti a Modena: ”Per quel che riguarda Modena, posso parlarne con cognizione di causa, poiché tutto si fece sotto i miei occhi e sotto la mia direzione. D’altronde le cose non avvennero diversamente a Parma ed a Firenze.”
"Ci eravamo fatti rimettere i registri delle parrocchie per formare le liste degli elettori. Preparammo tutte le schede per le elezioni dei parlamenti locali, come più tardi pel voto dell’annessione. Un picciol numero di elettori si presentarono a prendervi parte: ma, al momento della chiusura delle urne, vi gittavamo le schede, naturalmente in senso piemontese, di quelli che si erano astenuti.
Non è malagevole spiegare la facilità con cui tali manovre hanno potuto riuscire in paesi del tutto nuovi all’esercizio del suffragio universale, e dove l’indifferenza e l’astensione giovavano a maraviglia alla frode, facendone sparire ogni controllo
»
“....In alcuni collegi, questa introduzione in massa, nelle urne, degli assenti, - chiamavamo ciò completare la votazione, - si fece con sì poco riguardo che lo spoglio dello scrutinio dette un numero maggiore di votanti che di elettori inscritti".

Nelle altre regioni:
In Toscana una pressante campagna di stampa dichiara “nemico della patria e reo di morte chiunque votasse per altro che per l’annessione.
Le tipografie toscane furono poi tutte impegnate a stampare bollettini per l’annessione: e i tipografi avvisati che un colpo di stile sarebbe stato il premio di chi osasse prestare i suoi torchi alla stampa di bollettini pel regno separato. Le campagne furono inondate da una piena di bollettini per l’annessione.
Chiedevano i campagnuoli che cosa dovessero fare di quella carta: si rispondeva che quella carta dovea subito portarsi in città ad un dato luogo, e chi non l’avesse portata cadeva in multa. Subito i contadini, per non cader in multa, portarono la carta, senza neanche sapere che cosa contenesse
”.

La propaganda savoiarda racconta di un re democratico e disinteressato che rispetta la volontà dei popoli.
Prima dello svolgimento dei plebisciti nell’Italia meridionale, Vittorio Emanuele II si rivolge ai Popoli dell’Italia meridionale con il seguente proclama:
«Le mie truppe si avanzano fra voi per raffermare l’ordine: Io non vengo ad imporvi la mia volontà, ma a fare rispettare la vostra. Voi potrete liberamente manifestarla: la Provvidenza, che protegge le cause giuste, ispirerà il voto che deporrete nell’urna».
Forte del favorevolissimo risultato plebiscitario, il 7 novembre 1860 il Re dichiara:
«Il suffragio universale mi dà la sovrana podestà di queste nobili province. Accetto quest’alto decreto della volontà nazionale, non per ambizione di regno, ma per coscienza d’italiano».

Su queste farse nacque il regno d’ Italia (tratto da "Non mi arrendo",05/24/2010).

 
Andando indietro nel tempo, rileviamo che il Regno delle Due Sicilie (dizione a me non gradita, ma debbo rispettare la storia. Io lo chiamerei Regno di Napoli, come è più comunemente riconosciuto e come si chiamava all'epoca di re Carlo di Borbone. La Sicilia ha connotato col suo nome quel Regno, a sproposito, perchè si tratta di una Regione che ha sempre rivendicato la sua autonomia, in ogni epoca, tanto da offrire la corona ad altri, pur di disancorarsi dalla stato a cui apparteneva. Quindi mi sta particolarmente indigesta questa denominazione adottata da Ferdinando IV [poi I] nel 1816 soltanto per motivi di opportunità politica) fu pioniere in Italia e, a volte, anche in Europa di numerose innovazioni per andare incontro alle esigenze del popolo.
 

L’intuizione solidaristica di Ferdinando I e di Ferdinando II

Per comprendere ciò che fece il giovane re Ferdinando IV di Borbone (terzogenito di re Carlo VI di Borbone-Napoli,a cui successe nel1759 sul trono di Napoli) è doveroso andarsi a leggere un’opera contemporanea,scritta da Piero Pierotti,Imparare l’ecostoria,:note per il percorso di storia dell’urbanistica, SEU, Pisa, 1991.

"Lo Statuto di San Leucio o Codice leuciano, firmato nel  1789 da Ferdinando IV di Borbone, è una raccolta di leggi che, nel Regno di Napoli, regolamentavano la Real Colonia di San Leucio , sorta sulla omonima collina acquistata, nel 1750, da Carlo III di Borbone e adibita alla lavorazione su scala industriale della seta.  Il codice, secondo alcuni scritto dalla consorte Maria Carolina d'Asburgo-Lorena , fu edito dalla Stamperia Reale del Regno di Napoli in 150 esemplari. Il testo, in cinque capitoli e ventidue paragrafi, rispecchia le aspirazioni deldispotismo illuminato dell'epoca a interpretare gli ideali di uguaglianza sociale ed economica, e pone grande attenzione al ruolo della donna" (da Wikipedia,sub voce lo statuto di san leucio).

Da p.145 a p.148 questo studioso,con rapide e precise pennellate,ci dice di come Ferdinando sia stato precursore del socialismo,della legislazione sociale-previdenziale e del principio di sussidiarietà oggigiorno tanto sbandierato (questo principio,fondato su una visione gerarchica della vita sociale,afferma che le società di ordine superiore devono aiutare, sostenere e promuovere lo sviluppo di quelle minori).

Si tratta di un concetto proprio della Dottrina sociale della Chiesa,elaborato gradualmente nel tempo,che ho avuto modo di studiare in Etica sociale quando ho frequentato il corso quadriennale di Scienze religiose presso la Pontificia Università Lateranense di Roma,e poi da me riversato nell'insegnamento di questa disciplina nel Corso di diploma presso la Scuola per Assistenti sociali.
Lo Statuto,chiamato subito Codice,fu immediatamente tradotto in greco,tedesco e francese,e divulgato in tutta Europa.Ma fu la sua traduzione in lingua latina,eseguita dal prof.Abate Vincenzo Lupoli(1737-1800),teologo della Città di Napoli,nella cui Regia Università occupava la Cattedra delle Decretali e quella di Diritto ecclesiastico ottenute per concorso,a divulgare il Codice negli ambienti culturali europei.Il Lupoli (nato a Frattamaggiore) nel 1791 fu consacrato Vescovo e resse la Diocesi di Telese e Cerreto.Va opportunamente rilevato che il commento all'edizione latina ai vari capitoli era corredato non solo da richiami alla Binbbia,ma anche al diritto,ai filosofi greci e latini,con riferimenti agli Enciclopedisti francesi,a Voltaire,a Pufendorf,a Grozio,a Montesquieu,a Rousseau,con richiami ad antiche edizioni dei testi (cfr.A.Gentile,L'Abate Vincenzo Lupoli da Frattamaggiore e il Codice borbonico di S.Leucio,Istituto di Studi Atellani,NN.86-87,Anno XXIV,luglio-dicembre 1997,pp.136-40).
Questo era il Regno di Napoli nell'epoca illuministica,quando il Piemonte pensava - tanto per cambiare! - alle solite guerre e a come potersi mangiare il carciofo Italia foglia a foglia.Capito Napolitano? capito Lucio Villari? capito Piero Angela? capito Ernesto Galli della Loggia? capito Giuliano Amato? E potrei continuare,perchè sono in tanti a non voler capire e a continuare a menarcela con odiose menzogne sul Regno del sud,sulle sue condizioni di arretratezza,sulla negazione di Dio,inventata da Gladstone(che poi nel 1876 la smentì!).
Il codice, secondo alcuni scritto dalla consorte Maria Carolina d'Asburgo-Lorena , fu edito dalla Stamperia Reale del Regno di Napoli in 150 esemplari. Il testo, in cinque capitoli e ventidue paragrafi, rispecchia le aspirazioni del dispotismo illuminato dell'epoca a interpretare gli ideali di uguaglianza sociale ed economica, e pone grande attenzione al ruolo della donna" (da Wikipedia, sub voce lo statuto di san leucio).
Fu quindi il sovrano borbonico a volere, nel 1789, la Colonia della Manifattura delle sete di San Leucio ed un apposito codice per regolamentarne la vita associativa e predisporre sostegni “assicurativi” per gli operai. Già nel 1756 gli operai addetti alla costruzione dell’acquedotto Carolino progettato per portare l’acqua alla Reggia di Caserta, avevano scioperato a lungo a causa di un mortale incidente sul lavoro.
Quindi già prima del 1789 qualcuno aveva intuito ch’era il momento di portare a fioritura il germoglio della solidarietà: Ferdinando IV, Re di Napoli (poi Ferdinando I, Re delle Due Sicilie).
La “Legislazione di San Leucio”,nell’intrattenersi sui criteri della organizzazione del lavoro della“Manifattura di sete grezze e lavorate”, si occupa della stessa vita di relazione dei componenti di quella Colonia alla stregua di un vero codice comportamentale e presenta avanzati spunti di carattere economico, sociale e previdenziale,assurgendo così a precursore dei tempi.
Il Cap. III (“Degli impieghi”) disciplina il subentro, in caso di morte di un tessitore, di un nuovo “impiegato” che prenderà “la metà del soldo del defunto quello lasci la vedova… alla quale si darà l’altra metà”. Se la vedova è sola o con figli già in grado di guadagnare “due carlini al giornociascuno”, le resterà un “terzo, ed il rimanente si darà al nuovo impiegato” che poi lo riceverà tutto intero “alla morte della vedova”.
Come può notarsi, la ripartizione del “soldo” avviene, in caso di decesso, secondo princìpi di giustizia perequativa ancora oggi applicati per l’attribuzione diquote di pensione previdenziale o di rendita infortunistica ai superstiti dell’operaio, con l’ovvia notazione che nei nostri giorni non il “soldo”, ma la pensione o la rendita vengono ripartite in quote (il  Bimestrale di informazione dell'Inail,maggio/agosto 2003,n.3-4).
 
A questo punto mi corre l'obbligo di fare una diversione,parlando di Gaetano Filangieri (1752-17888). Questo principe napoletano, di orgine normanna, è una gloria della cultura napoletana,dell'Illuminismo napoletano.Si laureò in legge nel 1774 e in quello stesso anno pubblicò le "Riflessioni politiche",con cui mirava ad eliminare gli arbitri del ceto forense,difendendo una disposizione di re Carlo,e stabiliva l’obbligo della motivazione delle sentenze! Ma l'opera che lo ha reso immortale è la "Scienza della legislazione",in sette volumi,di cui furono pubblicati soltanto cinque a causa della morte prematura dell'autore.Pubblicata dal 1780,fu tradotta in inglese,francese,tedesco,spagnolo,russo e svedese.Ad essa si ispirò Benjamin Franklin per la Costituzione americana(fu in corrispondenza col Filangieri) e poi i rivoluzionari francesi.Napoleone Bonaparte ricevette la vedova,riparata a Parigi dopo i moti del 1799,tenendo in bella mostra sulla scrivania un esemplare dell'opera del Filangieri,di cui disse:"Questo giovane è stato maestro di tutti noi"!  Fu visitato anche da Goethe(che da lui apprese il pensiero del Vico).I rivoluzionari napoletani del 1799 si ispirarono a lui. Ovviamente i suoi libri furono messi all'ndice dalla chiesa di Roma e banditi dal Regno(perciò la moglie dovette chiedere indulgenza alla regina Maria Carolina e poi riparare a Parigi).Le idee di questo studioso erano rivoluzionarie per l'epoca e antesignane di un nuovo sviluppo del diritto,come poi è avvenuto negli stati moderni.Infatti Filangieri "affermava l'esigenza di una codificazione delle leggi e di una riforma progressiva dalla procedura penale". L'unico luogo in cui ciò allora non poteva andare bene fu il Regno delle Due Sicilie di Ferdinando I,dove era stato accantonato il ministro pisano riformatore voluto da Carlo di Borbone,il grande Bernardo Tanucci(1698-1783),e il figlio Ferdinando IV(poi I) fu costretto ad asseconndare la volontà della moglie, Maria Carolina d'Asburgo(figlia di Maria Teresa e sorella minore di Maria Antonietta)che volle l'inglese lord Acton come primo ministro.Quindi a Ferdinando restò solo il limitato esperimento di San Leucio,di cui abbiamo detto.
 
La legislazione di San Leucio fu nel secolo seguente applicata,migliorandola, dal nipote Ferdinando II ai lavoratori del polo siderurgico calabrese, di cui la ferriera di Mongiana rappresenta il centro più importante. 
Il regolamento per le miniere del ferro dei Reali Stabilimenti di Mongiana, datato 13 aprile 1845, è un documento abbastanza raro, poiché in molte nazioni, riguardate oggi come più progredite, spesso non esisteva alcun regolamento e le condizioni di lavoro dei minatori non erano sicuramente invidiabili. La giornata lavorativa era già di sole otto ore, ben lungi dalle sedici applicate in altre nazioni(es.l'Inghilterra,la Germania e gli USA)ed inferiore alle dieci-undici vigenti nel Regno.Per i compiti più disagevoli questo limite poteva essere ulteriormente ridotto. Esisteva una cassa di previdenza per gli infortuni sul lavoro. A partire dal 1840 fu destinato a Mongiana un chirurgo, ma dai documenti non si evince che abbia avuto particolarmente da fare.A parte l'epidemia di colera del 1848, che non investì, comunque, la sola Mongiana,non vi è traccia di malattie epidemiche,né risulta che la popolazione risentisse delle malattie tipiche della maggior parte delle imprese industriali dell'epoca.Da rilevare, poi, la pressoché assoluta assenza di alcolismo.Manca totalmente lo sfruttamento delle donne, mentre il lavoro minorile è limitato a funzioni gregarie,con orari di lavoro molto miti.Oltre al chirurgo,risiedeva a Mongiana stabilmente un farmacista con funzioni di medico,nonché alcuni insegnantiche istruivano i figli degli operai all'intemo della Fabbrica di armi.La Mongiana conquista all’Esposizione industriale di Firenze (1861) una medaglia con diploma; l'anno successivo ghisa, ferro,lame damascate,carabine di precisione,sciabole ed armi varie prodotte dalla ferriera calabrese sono premiate all'Esposizione internazionale di Londra.Le miniere di Pazzano vengono abbandonate subito dopo l'Unità, le gallerie degradate dall'abbandono saranno chiuse (all'ingresso oggi sorge una discarica), anche se le analisi sul minerale consiglieranno di non abbandonare l'impresa.La Mongiana, lasciata senza mercati, privata dei suoi più brillanti tecnici, assisterà impotente al proprio disfacimento,rea di essersi opposta all'annessione.Con legge 21 agosto 1862 n. 793 la Mongiana viene inclusa tra i beni demaniali da alienare;undici anni dopo, con legge 23 giugno 1873 verrà sanata definitivamente la vendita dello stabilimento.A nulla valgono le ripetute suppliche al governo della comunità mongianese che fa un ultimo disperato tentativo con una delibera del consiglio Comunale del 28 novembre 1870, on cui viene chiesta la ripresa dei lavori per rimettere in funzione lo stabilimento,dando conto delle ragioni che la giustificano.È un documento molto bello, dai toni accorati, ma dignitosi e pieni di orgoglio per un passato da non dimenticare. Il linguaggio è decisamente non burocratico, anzi appassionato ed è l'intera comunità che chiede allo Stato di non essere abbandonata e di poter trovare "un mezzo di sussistenza a tanti operai di tutti i mestieri i quali con le rispettive famiglie vennero costretti, attesa la mancanza di lavoro, a provar quanto è cosa dura morir per fame": un disperato appello che, purtroppo, cadrà nel vuoto.Probabilmente è anche l'ultima possibilità, che il Governo non saprà cogliere, di riconciliazione con quanti sono stati defraudati dei loro diritti di cittadini.
Purtroppo,non solo il governo non si farà minimamente turbare da queste petizioni (altre ne seguiranno il 23 ed il 27 aprile 1872,ma ormai i giochi sono fatti);nessuna richiesta dei mongianesi verrà accolta e nessuna commessa per l'esecuzione di alcun lavoro arriverà mai più allo stabilimento. Tutto è già stato deciso: Mongiana deve morire.A Catanzaro, sul banco del banditore,prima che la candela si spenga,Achille Fazzari,ex sarto,ex garibaldino carbonaro,deputato,si aggiudica tutto il complesso.
Peggio non poteva andare. Fazzari non è un imprenditore, anzi è assolutamente incompetente: Mongiana è completamente abbandonata; Ferdinandea diventa un'oasi privata dove il deputato ospiterà l'intellighenzia del momento e sarà effettivamente quel "luogo di villeggiatura" che invece con Ferdinando II non fu mai tale.
Ai mongianesi non rimane altra scelta che emigrare: i più fortunati troveranno lavoro a Terni nella fabbrica d'armi aperta in quella città nel1884; altri meno fortunati (e saranno tanti) aspetteranno sulle banchine del porto di Napoli il proprio turno per imbarcarsi sui piroscafi diretti verso Stati Uniti, Argentina, Canada, Australia.
I loro figli e nipoti oggi tornano, di tanto in tanto, al loro paese, nessuno di loro, però, ne conosce la storia; qualcuno sa, a mala pena, che un tempo i loro antenati erano stati più ricchi ed il loro paese aveva vissuto tempi migliori"Le Ferriere del Regno:il polo siderurgico delle Calabrie,Università Federico II,Napoli,2002.QUANDO IL NORD D’ITALIA ERA NEL SUD.LA VERGOGNOSA ED IGNOBILE VENDETTA DEI SAVOIA AFFAMA E RIDUCE IN POVERTÀ IL SUD COLPEVOLE DI FEDELTÀ AGLI AMATI BORBONI. .(da Mariolina Spadaro,Le Ferriere del Regno:il polo siderurgico delle Calabrie ,Università Federico II,Napoli,2002.QUANDO IL NORD D’ITALIA ERA NEL SUD.LA VERGOGNOSA ED IGNOBILE VENDETTA DEI SAVOIA AFFAMA E RIDUCE IN POVERTÀ IL SUD COLPEVOLE DI FEDELTÀ AGLI AMATI BORBONI.(da "Archeologia industriale",tema trattato per la classe V ginnasiale,Sezione B,del Liceo classico "Ivo Oliveti" di Locri,dalla prof.Ester Iero in collaborazione con la prof.Maria Carmela Spadaro,avvocato calabrese,ricercatrice presso l’Università Federico II di Napoli ed autrice di numerosi saggi sulla storia del Regno delle Due Sicilie, a partire dall’epoca spagnola).
 
Al termine di questa esposizione sento l'obbligo di riportare l'immagine di tre grandi re della Casa Borbone-Napoli: Carlo VII; suo figlio Ferdinando I e il suo trisnipote Ferdinando II.Quest'ultimo avrebbe meritato,come il suo trisavolo Carlo VII (poi Carlo IIIdi Spagna) che la sua statua fosse esposta al pubblico nell'ultima nicchia fuori il Palazzo Reale di Napoli.Invece in quel posto il re Umberto Ifece collocare la statua di suo padre,Vittorio Emanuele II,quello che nel 1860 andò di persona a invadere il Regno delle Due Sicilie,tradendo la fiducia e la buona fede del giovane re Francesco II di Borbone.Possiamo tranquillamente chiamarlo l'Usurpatore.
 
Il re Carlo VII di Borbone-Napoli.A destra la statua esistente nella facciata del Palazzo Reale di Napoli
 
Ferdinando I di Borbone re di Napoli (1751-1825), olio su tela di Vincenzo Camuccini,1818-19
Ferdinando II re di Napoli (1810-59),opera dello scultore Pasquale Ricca
Ferdinando II re di Napoli in una rara foto del 1850

Palazzo Reale di Napoli, opera dell'architetto Domenico Fontana,1600
 
La celebre Reggia di Caserta fatta erigere dal re Carlo di Borbone-Napoli su progetto di Luigi Vanvitelli
(i lavori iniziarono nel 1751 e terminarono nel 1845,ma nel 1780 la Reggia era già abitata)
(Riporto qui quanto inserito in questo sito nella Sezione 8.1 - Cronistoria familiare:sexx-XVIII-XXI:"Grazie ad un cugino di terzo grado,Vitaliano Zamprotta,giornalista addetto all'Ufficio stampa e funzionario della Soprintendenza ai Beni storici-paesaggistici-culturali,che lavora proprio nella Reggia di Caserta,il 17 novembre 2010,sono venuto in possesso delle copie di alcuni documenti.Da tre di essi risultano dei pagamenti al mio avo diretto Giuseppe Zambrotta:uno del 1751 riporta un pagamento di 3,30 ducati;un secondo pagamento è di 13,54 e1/2 ducati; e il terzo riporta 9 ducati per lavori eseguiti per la Reale Scuderia,il Real Magazzino e la costruzione del "Nuovo Real Palazzo"(cioè la Reggia di Caserta).Tutti e tre i documenti,datati 22 novembre 1751,9 febbraio 1752,3 agosto 1753 riportano in calce anche la firma, per ricevuta,del Mastro falegname Giuseppe Zambrotta.A vederla mi è venuto un tuffo al cuore, perchè è stato come andare indietro nel tempo potendo vedere come firmava un mio avo diretto di circa 260 anni fa!Do qui di seguito le copie dei documenti con le relative "traduzioni" eseguite da Vitaliano Zamprotta.
Pertanto,risulta che Giuseppe Zambrotta prese parte ai lavori di costruzione e arredamento della Reggia di Caserta(che fu abitata fin dal 1780) e certamente partecipò anche alla posa della prima pietra avvenuta il 20 gennaio 1752(36mo genetliaco di Re Carlo di Borbone).(Le ianelle o pianelle di cui sopra erano delle mattonelle usate per la pavimentazione o per la copertura dei tetti).Lo storico evento è ricordato in un dipinto del 1845 del pittore Gennaro Maldarelli che si trova nella Sala del Trono della Reggia").
 
A proposito del Re Ferdinando II non posso esimermi dal dire che fu un grandissimo sovrano,come si è potuto ben capire da ciò ho scritto in precedenza.
Se si va a leggere il suo testamento,si può notare che non lasciò immense ricchezze,perché non aveva rubato,come erano abituati a fare i suoi parenti savoiardi prima col regno di Sardegna e poi col regno d’Italia (basti vedere l’appannaggio che il governo dovette concedere annualmente a Vittorio Emanuele II!).
La sua morte a soli 49 anni fu causata da setticemia,non affrontata immediatamente, conseguente a diabete mellito.Con una semplice incisione a Bari,come propose il dott.Nicola Longo,si sarebbe risolto il problema.Invece da Bari fu trasportato a Napoli,via mare,avviandolo a morte sicura,come in effetti fu.La sua morte aprì le porte alla realizzazione dei piani cavourriani e savoiardi che prevedevano di mangiare le ulteriori foglie del carciofo Italia per rimpinzare la pancia del padre della patria!
Purtroppo ciò che aveva lasciato,e che era proprietà di famiglia sia in beni mobili sia immobili, fu subito confiscato dai nuovi padroni d’Italia nel1860-61,calpestando tutte le norme giuridiche riconosciute.
A distanza di poco più di ottantanni gli usurpatori subirono lo stesso trattamento da parte della Repubblica italiana.
Improvvidamente,poi,nel novembre 2007 i signori Savoia,con la loro solita faccia,avanzarono legalmente una richiesta di risarcimento per l’esilio di 260 milioni di euro al Governo Prodi,caduta nel nulla grazie alla sua inconsistenza giuridica.Non fece ridere nemmeno come barzelletta.
 
Dopo questa lunga chiacchierata,nella quale ho ritenuto doveroso e opportuno presentare soltanto i fatti più noti nella loro vera luce,mi sembra impossibile dover assistere,quotidianamente,in questo 150mo anniversario dell'unità,alle mistificazioni storiche che ci vengono propinate,come se fossimo tutti degli analfabeti,dei deficienti,degli ignoranti che hanno ancora bisogno di essere imboccati.In particolare,provocano nausea le patetiche rievocazioni,con relativi giudizi storici irricevibili,fatte da un ordinario di diritto costituzionale in pensione,che ora si spaccia per storico.Egli è arrivato al punto di dire, bontà sua,che "Gramsci si sbagliò",quando espresse i suoi severi giudizi sull'annessione del sud.Ancor più gravi sono le mistificazioni storiche del duo Barolo-Barbera.Due piemontesi che approfittano settimanalmente del mezzo televisivo e chiacchierano allegramente sull'argomento,buttandosi la palla,a chi la spara più grossa.Trattandosi di due famosi vini piemontesi,siamo portati a pensare che i due compari siano un pò bevuti.Purtroppo,questo è lo stato delle cose,con benedizione dal Colle più alto.Taciamo che su quel Colle ora ci risiede un napolitano!
 
Per il 150 anniversario dell'unità d'Italia certuni hanno ritenuto di doversi sbizzarrire,e ne hanno inventate di tutti i colori.Abbiamo dovuto sorbirceli per forza tra tv,giornali e manifestazioni varie,celebrati unicamente in quelle che furono i centri propulsivi della benefica azione òpolitoc-militare.
 
Tra le tante sciocchezze,abbiamo dovuto sopportare quelle delle trasmissioni televisive assemblate dal giornalista Piero Angela(quello,per intenderci,al quale finora sono state conferite ben 8(otto)lauree honoris causa!Ovviamente di suo sa poco o niente, perchè sono sempre i consulenti e gli "esperti",invitati in trasmissione a parlare,lui fa da spalla e ogni tanto ridacchia d'intesa con l'ospite,specialmente quando le sparano più grosse del solito.Tra gli ospiti eccellenti invitati per celebrare scientificamente i fasti risorgimentali primeggia la professoressa Lucy Riall,che parla italiano con un accento alquanto comico.A costei uno storico italiano,Erminio De Biase,ha indirizzato la lettera che segue:
Lettera di Erminio De Biase del 30 marzo 2011 a Lucy Riall
"Esimia Professoressa,
mi dice,per cortesia,come fa,in televisione, in così poco tempo che ha a disposizione, a dire tante sciocchezze sul cosiddetto risorgimento italiano?Mi spiega,sempre per cortesia, come fa ad avere la spudoratezza di affermare che l'economia meridionale ha tratto vantaggi dall'unificazione italiana?Lo sa che ci vuole una bella faccia tosta per affermare simili panzane? Ha citato come esempio Catania: bene,trovandosi  in zona perché non ha nemmeno nominato Bronte dove, per difendere i propri interessi dai contadini illusi dalle promesse di Garibaldi,i suoi conterranei (ducea di Nelson) sollecitarono prontamente il biondo eroe dei due mondi, a provvedere con fucilazioni immediate?Ed il burattino in camicia rossa prontamente ubbidì.Perché non parla mai della spudorata protezione che la Mediterranean Fleet di S. M. britannica continuamente assicurò al nizzardo da Marsala e fino alla battaglia del Volturno? Forse perché,se lo facesse,dovrebbe poi spiegare che tutta l'epopea risorgimentale non fu altro che un'immensa cortina fumogena sollevata principalmente per nascondere un'immensa operazione voluta,garantita,protetta e,soprattutto,sovvenzionata dalla massoneria inglese per salvaguardare gli interessi commerciali britannici nel Mediterraneo e oltre?
Ed inoltre, lei ha affermato che:
  1. Maz zini contattò Garibaldi perché era venuto a conoscere le sue imprese in Sud-America:FALSO! Garibaldi era già mazziniano quando scappò in Sud-America!
  2. Lei ha paragonato Garibaldi a Che Guevara: FALSO! Garibaldi fu al servizio degli interessi dei liberalmassonici, il Che, al contrario, visse e morì per il popolo!
  3.  Garibaldi era anche un politico. FALSO! Non ha mai capito niente di politica!
  4. L'Inghilterra aiutò il risorgimento solo per amore verso l'Italia: FALSO! La Gran Bretagna pensava solo ai propri interessi e, una nazione "amica", governata da confratelli massoni, avrebbe fatto il suo gioco!

 Garibaldi nel 1860 era depresso perché era venuto a sapere che la fresca sposina era "innamorata" di un altro. FALSO! La sposina non era, poi, tanto fresca perché era incinta di una altro! Era altresì depresso perché Nizza era stata ceduta alla Francia: FALSO! Se così fosse stato, egli -da eroe impulsivo qual era- sarebbe corso a Nizza e non in Sicilia, come invece gli fu ordinato (cfr Laurence Oliphant)!Leggendo la storia di Garibaldi, si è divertita: ma dove l'ha letta, su Topolino?

Se dunque, tutte queste cose, lei non le sa, le approfindisca, colmando così la sua ignoranza in materia, ma se, invece, le conosce bene e le tace per puro opportunismo, mi faccia allora la cortesia, prima parlare del mio Paese, di studiarsela bene la Storia, prima di inventarsela, così come si inventa i suoi eroi!
La saluto cordialmente".
 
Penso sia opportuno aggiungere il CV dell'interessata,passato al vaglio di tutte le baronie scientifiche europee:
CV
Born 1962, 1988 PhD in History at the University of Cambridge; since 1994 Professor in History, Birkbeck University of London; since 2003 Editor, European History Quarterly; 2003-2004 École Normale Supérieure, Paris, France, Professeur invité, Freie Universität, Berlin, Germany Berliner Kolleg für Vergleichende Geschichte Europas, Visiting Professor; 2005-2006 The Leverhulme Trust, Research Fellowship; 2007-2008 Université de Paris Est, France, Professeur invité; since 2007 Member, Faculty of Archaeology, History and Letters, British School at Rome; since 2007 Laboratoire Jean-Baptiste Say, Université de Paris Est, France, Chercheur associé; 2008 The British Academy, Overseas Conference Grant; 2009-2010 Fellowship FRIAS School of History.
E' ovvio che con un simile CV questa persona viene presa come oro colato dalla RAI TV per tutto ciò che dice,come accade per i nostrani Lucio Villari e Alessandro Barbero che,periodicamente invitati,ci dilettano con le loro esegesi storiche e con i loro aneddoti:l'audience è assicurata.
L'esimio prof.Barbero(docente di storia medievale a Vercelli) è stato a Biella insieme al prof.Stefano Bruno Galli(docente di storia delle dottrine politche a Milano).Erano stati invitati per il Pugilato letterario,nell'ambito della stagione culturale di Città Studi.Moderatore una specie di barman.A latere un'altra persona che ogni tanto farfugliava qualcosa di inutile dimostrando una grande ignoranza,come quando ha affermato di ignorare l'esistenza di migliaia di fuoriusciti politici meridionali a Torino a metà '800!L'argomento della sfida era "L'unità d'Italia",a favore della quale parlava il Barbero e,invece,contro il Galli.Il bello è stato sentire il Barbero affernare che all'Inghilterra non importava nulla dell'Italia,stato periferico senza alcuna importanza!Ergo,dobbiamo dedurre noi poveri ignoranti,l'Inghilterra,la marina militare inglese,la massoneria inglese,Palmerston,Gladstone et alii non interferirono minimamente col processo risorgimentale italiano.Consiglio al prof.Barbera di continuare a coltivare i suoi studi medievali e di lasciar perdere il risorgimento,dove scivola continuamente obbligandoci a esilaranti risate!Del resto chi ha letto le note precedenti si sarà reso conto di quanto interferirono le potenze straniere e,in particolare, l'Inghilterra nel processo di unificazione della penisola,che interessava non tanto per fini politici,morali e culturali,ma soprattutto per motivi economico-commerciali,strategici(altro che paese periferico di nessuna importanza!),geografici.Compatisco coloro che studiano con questi professori buoni solo a fare battute e a snocciolare le loro esegesi personali come dei robot(mi fanno venire in mente alcuni looro colleghi che sono diventati,casualmente,in Italia,presidenti del consiglio dei ministri!).
 
Dopo questo intermezzo mediatico,desidero offrire ai lettori una vera chicca,rappresentata dalla ricerca condotta dall'avv.Antonio Pagano e pubblicata nel 2005,che riporto di seguito:
 
Cronologia di un anno infame. La pulizia etnica piemontese nelle Due Sicilie
di Antonio Pagano

La statistica di fine anno 1861, fatta dagli occupanti piemontesi, indicò che nel solo secondo semestre vi erano stati 733 fucilati, 1.093 uccisi in combattimento e 4.096 fra arrestati e costituiti. Le cifre, tuttavia, furono molto al disotto del vero, in quanto non erano indicati quelli della zona della Capitanata, di Caserta, Molise e Benevento, dove comandava il notissimo assassino Pinelli. Al Senato di Torino, il ministro della guerra Della Rovere, dichiarò che 80.000 uomini dell'ex armata napoletana, imprigionati in varie località della penisola, avevano rifiutato di servire sotto le bandiere piemontesi. Vi erano stati migliaia di profughi, centinaia i paesi saccheggiati, decine quelli distrutti. Dovunque erano diffuse la paura, l'odio e la sete di vendetta. L'economia agricola impoverita, quasi tutte le fabbriche erano state chiuse e il commercio si era inaridito in intere province. La fame e la miseria erano diventate un fatto comune tra la maggior parte della popolazione. Il 1° gennaio 1862 in Sicilia insorse Castellammare del Golfo al grido di 'fuori i Savoia. Abbasso i pagnottisti. Viva la Repubblica'. Furono uccisi il comandante collaborazionista della guardia nazionale, Francesco Borruso, con la figlia e due ufficiali. Case di traditori unitari vennero arse. Strappati i vessilli sabaudi, spogliati ed espulsi i carabinieri. Le guardie e i soldati accorsi da Calatafimi e da Alcamo furono battuti e messi in fuga dai rivoltosi. Il 3 gennaio arrivarono nel porto la corvetta 'Ardita' e due piroscafi che furono accolti a cannonate, ma con lo sbarco dei bersaglieri del generale Quintini i rivoltosi furono costretti alla fuga. I piemontesi fucilarono centinaia di insorti tra cui alcuni preti. A Palermo comparirono sui muri manifesti borbonici e sulla reggia fu messa una bandiera gigliata. Agli inizi dell'anno il generale borbonico Tristany, accompagnato da una decina di ufficiali Spagnoli e Napolitani, ebbe un nuovo abboccamento con il comandante partigiano Chiavone, al quale ripeté la richiesta di subordinare le sue forze partigiane alla sua azione di comando affidatogli dal Re Francesco II. A Marsala, durante la caccia ai patrioti siciliani, le truppe piemontesi circondarono la città e arrestarono oltre tremila persone, per lo più parenti dei ricercati, comprese donne e bambini, che furono ammassate per settimane nelle catacombe sotterranee vicine alla città, in condizioni disumane, dove erano prive di luce e di aria. Al ponte di Sessa un plotone di lancieri cadde in un agguato dei partigiani napolitani e sedici soldati furono uccisi. A Napoli si ebbero tumulti per l'applicazione della legge che aveva imposta la nuova tassa detta il decimo di guerra. Proprio in gennaio furono abolite le tariffe protezionistiche per effetto delle pressioni della borghesia agraria del Piemonte e della Lombardia. Queste disposizioni dettero il colpo di grazia alle industrie dell'ex Reame provocando il definitivo fallimento degli opifici tessili di Sora, di Napoli, di Otranto, di Taranto, di Gallipoli e del famosissimo complesso di S. Leucio, i cui telai furono portati qualche anno dopo a Valdagno, dove fu creata la prima fabbrica tessile nel Veneto. Vennero smantellate, tra le altre attività minori, le cartiere di Sulmona e le ferriere di Mongiana, i cui macchinari furono trasferiti in Lombardia. Furono costrette a chiudere anche le fabbriche per la produzione del lino e della canapa di Catania. La disoccupazione diventò un fenomeno di massa e incominciarono le prime emigrazioni verso l'estero, l'inizio di una vera e propria diaspora. Con gli emigranti incominciarono a scomparire dalle già devastate Terre Napoletane e Siciliane le forze umane più intraprendenti. A questo grave disastro si aggiunse l'affidamento degli appalti (e le ruberie) per i lavori pubblici da effettuare nel Napoletano ed in Sicilia ad imprese lombardo-piemontesi che furono pagate con il drenaggio fiscale operato dai piemontesi. La solida moneta aurea ed argentea borbonica venne sostituita dalla carta moneta piemontese, provocando la più grande devastazione economica mai subìta da un popolo. Il 22 gennaio sul Fortore, nel Foggiano una banda di 140 patrioti a cavallo attaccò una compagnia di fanti piemontesi che furono decimati. A Napoli militari piemontesi isolati caddero vittime di attentati. A Mugnano, caduta in un agguato, la banda partigiana di Angelo Bianco fu completamente assassinata dai bersaglieri e dalle guardie nazionali. Il 1° febbraio, nei boschi di Lagopesole, due compagnie di bersaglieri e fanti assaltarono i patrioti di Ninco-Nanco e Coppa, uccidendone 11 e catturando una donna. Proprio in quel giorno il turpe Liborio Romano, quale deputato, propose nel parlamento piemontese di vendere tutti i beni demaniali e degli istituti di beneficenza delle Due Sicilie a prezzo minore del valore reale, a rate fino a 26 anni, pagabile con titoli di Stato al 5%. Il giorno dopo la banda di Giuseppe Caruso sgominò un reparto del 46° fanteria nel bosco di Montemilone. A Reggio Calabria, il 5 febbraio, vennero imprigionati tutti quelli "sospettati" di essere filoborbonici. Sul confine pontificio, lo stesso giorno, alcuni gruppi patrioti comandati dal Tristany furono sconfitti dalle truppe piemontesi nei pressi di Pastena. Pilone, invece, a Scafati sfuggì ad un agguato tesogli dalle guardie nazionali di Castellammare. A Vallo di Bovino furono catturati e fucilati dai patrioti due ufficiali piemontesi. Il generale La Marmora, in visita a Pompei sfuggì ad un attentato da parte della banda di Pilone. A Napoli venne minacciata da Pilone la stessa duchessa di Genova, cognata di Vittorio Emanuele, a cui intimò con una lettera di non uscire da Napoli, pena la cattura. I terrorizzati piemontesi, in quei giorni, persero completamente il controllo della situazione, emanando dei bandi e ordinanze feroci, soprattutto nel Gargano e in Lucera, dove furono comminate pene di morte per la violazione dei più piccoli divieti. Il col. Fantoni in terra di Lucera, dopo aver vietato l'accesso alla foresta del Gargano, fece affiggere un editto che disponeva che: "Ogni proprietario, affittuario o ogni agente sarà obbligato immediatamente dopo la pubblicazione di questo editto a ritirare le loro greggi, le dette persone saranno altresì obbligate ad abbattere tutte le stalle erette in quei luoghi ... Quelli che disobbediranno a questi ordini, i quali andranno in vigore due giorni dopo la pubblicazione, saranno, senza avere riguardo per tempo, luogo o persona, considerati come briganti e come tali fucilati". L'8 febbraio evasero dalle carceri di Teramo 55 patrioti, che si rifugiarono sui monti sotto il comando di Persichini. Inseguiti da un reparto del 41° fanteria, cinque furono uccisi e tredici catturati, ma anche questi furono fucilati dopo qualche giorno. Durante una riunione in una masseria di S. Chirico in Episcopio, la banda di Cioffi, tradita da un tal Lupariello, fu circondata ed assalita da ingenti forze piemontesi, ma l'inattesa e violentissima reazione dei patrioti causò uno sbandamento degli assedianti. Pur subendo due morti e molti feriti, Cioffi riuscì a sganciarsi con tutti i suoi uomini. I cadaveri dei due patrioti morti in combattimento furono esposti dai piemontesi nella piazza della Maddalena a Sarno. Qualche giorno dopo il Lupariello fu catturato e, sottoposto ad un giudizio, giustiziato, poi la sua testa fu apposta dai militari piemontesi su una pertica vicino a una sorgente frequentata dalla popolazione. Il 12 febbraio il colonnello della guardia nazionale di Cosenza, Pietro Fumel, emanò un bando da Cirò veramente raccapricciante: "Io sottoscritto, avendo avuto la missione di distruggere il brigantaggio, prometto una ricompensa di cento lire per ogni brigante, vivo o morto, che mi sarà portato. Questa ricompensa sarà data ad ogni brigante che ucciderà un suo camerata; gli sarà inoltre risparmiata la vita. Coloro che in onta degli ordini, dessero rifugio o qualunque altro mezzo di sussistenza o di aiuto ai briganti, o vedendoli o conoscendo il luogo ove si trovano nascosti, non ne informassero le truppe e la civile e militare autorità, verranno immediatamente fucilati ... Tutte le capanne di campagna che non sono abitate dovranno essere, nello spazio di tre giorni, scoperchiate e i loro ingressi murati ... È proibito di trasportare pane o altra specie di provvigione oltre le abitazioni dei Comuni, e chiunque disubbidirà a questo ordine sarà considerato come complice dei briganti." Costui, un sanguinario assassino, praticò metodicamente il terrore e la tortura contro inermi cittadini e le loro proprietà per distruggere ogni possibile aiuto ai patrioti. Questi orrendi misfatti ebbero un'eco perfino alla camera dei Lords di Londra, dove nel maggio del 1863, il parlamentare Bail Cochrane, a proposito del proclama del Fumel, affermò : "Un proclama più infame non aveva mai disonorato i peggiori dì del regno del terrore in Francia", per cui gli ufficiali che avevano emanato quegli ordini furono allontanati dai propri reparti. Il famoso comandante Crocco, che aveva diviso la sua banda di circa 600 uomini in sei gruppi, l'aveva disseminata nei boschi di Monticchio, Boceto, San Cataldo e Lagopesole. I suoi gruppi patrioti con rapide scorrerie misero a sacco le masserie dei traditori nella zona di Altamura. Poi, il 24 febbraio, Crocco assaltò la guardia nazionale di Corato e batté i cavalleggeri del generale Franzini in uno scontro presso Accadia, dove però perse dodici uomini. Il 1° marzo Crocco riunì nel bosco di Policoro, presso la foce del Basento, i suoi patrioti a quelli di Summa, Coppa, Giuseppe Caruso e Cavalcante, in previsione del piano elaborato dal Comitato Borbonico in Roma (Clary e Statella) di attaccare Avezzano con duemila uomini comandati da Tristany, che, richiamando così le truppe piemontesi, avrebbe dovuto lasciare sguarnito il confine pontificio per lunghi tratti, permettendo ad altre forze borboniche di invadere gli Abruzzi con la contemporanea sollevazione di tutti i patrioti del Reame. Era previsto anche uno sbarco sul litorale ionico di elementi legittimisti spagnoli e austriaci. Una spia infiltrata, Raffaele Santarelli, fece conoscere in tempo il piano ai piemontesi, che presero contromisure sia navali, con la flotta di Taranto, sia per via terrestre con un concentramento di bersaglieri e cavalleggeri. Il 3 e il 4 marzo 1862 Crocco si scontrò al ponte S. Giuliano, sul Bradano, con il 36° fanteria e lo mise in fuga, ma subendo alcune perdite. Nei giorni successivi, l' 8 marzo, a S. Pietro di Monte Corvino, si ebbe un altro scontro di patrioti contro piemontesi, che subirono numerose perdite. Il giorno dopo Crocco sconfisse alcuni reparti di guardie nazionali alla masseria Perillo, nei pressi di Spinazzola, uccidendone dieci, compreso il comandante, maggiore Pasquale Chicoli, un traditore che aveva formato il governo provvisorio di Altamura ancora prima dell' arrivo dei garibaldini. Il 10 marzo Pilone occupò Terzigno, dove dopo aver requisito armi e munizioni, fucilò i ritratti di Garibaldi e Vittorio Emanuele. Il governatore piemontese dispose che tutto il 7° reggimento di fanteria venisse destinato a catturare Pilone. A Baiano, il 12 marzo, venne fucilato un contadino di 16 anni, Antonio Colucci, che, stando su un albero in una masseria di Nola, aveva segnalato ai patrioti l'arrivo di piemontesi. Il ragazzo era stato catturato e processato da un tribunale di guerra che lo condannò alla pena capitale. Nel frattempo continuarono numerosi gli attacchi dei partigiani napoletani, vere e proprie azioni di guerra, contro le truppe piemontesi. Tra gli episodi più importanti sono da ricordare quello del 17 marzo, quando la banda di Michele Caruso sterminò alla masseria Petrella (Lucera) un intero distaccamento di 21 fanti dell'8° fanteria, comandato dal capitano Richard. Il 31 marzo ad Ascoli di Capitanata i patrioti sconfissero, procurando centinaia di morti, i bersaglieri e i cavalleggeri del colonnello Del Monte. Lo stesso giorno, a Poggio Orsini, presso Gravina, i piemontesi misero in fuga un centinaio di patrioti, ma a Stornarella furono massacrati 17 lancieri del Lucca, che ebbe anche 4 dispersi. La provincia di Bari, la terra d'Otranto ed il Tarantino erano tuttavia controllate dalle forze partigiane. In questi avvenimenti vi furono molti garibaldini ed anche regolari piemontesi che disertarono e si unirono ai briganti. Tra i disertori è da ricordare come esempio quello dell'operaio biellese Carlo Antonio Gastaldi, decorato con medaglia d'argento al valor militare nella battaglia di Palestro del 1859. Inviato nelle Puglie a combattere i 'briganti', fu talmente schifato delle nefandezze piemontesi, che divenne addirittura luogotenente del Sergente Romano, insieme ad un altro piemontese, Antonio Pascone. Alla fine di marzo, nel parlamento di Torino fu istituita un Commissione con il compito di studiare le condizioni delle provincie meridionali. Tale Commissione, presieduta dai massoni Giuseppe Montanelli e Luigi Miceli, suggeriva, tra l'altro, di iniziare numerosi e svariati lavori pubblici, istituire nuove scuole comunali per 'illuminare' la gioventù, l'incameramento totale dei beni religiosi, la divisione e vendita dei beni demaniali e comunali. Per la risoluzione del 'brigantaggio' la commissione proponeva anche l'invio di Garibaldi a Napoli e l'aumento delle guardie nazionali. Il mese successivo, il 4 aprile, la legione ungherese, già "usata" da Garibaldi nella sua spedizione, riuscì ad infliggere alcune perdite a Crocco tra Ascoli e Cerignola. Il 6 aprile 200 patrioti assalirono Luco de' Marsi dove si era asserragliato un reparto del 44° fanteria che si difesero efficacemente. Poi il 7 aprile Crocco sconfisse due drappelli del 6° fanteria a Muro, Aquilonia e Calitri, uccidendo una ventina di piemontesi e catturando numerosi prigionieri. A Torre Fiorentina, presso Lucera, l'8 aprile, i lancieri di Montebello uccisero trenta patrioti. Il giorno dopo circondarono i rimanenti patrioti di Coppa e Minelli, che furono quasi completamente distrutti: 40 morti, 21 fucilati dopo la cattura ed altri 42 uccisi mentre 'tentavano la fuga'. In Sicilia, ad Apaforte, Stincone, S. Cataldo e Boccadifalco, la popolazione insorse dando alle fiamme le cataste di zolfo. Furono distrutte tutte le piantagioni e gli animali per protesta contro le vessazioni dei piemontesi. Le truppe francesi di stanza nello Stato Pontificio sequestrarono il 10 aprile le armi e munizioni borboniche a Paliano, a Ceprano, a Falvaterra. Le armi avrebbero dovuto servire per il piano d'invasione capeggiato dal Tristany. Con una delibera del 13 aprile la piazza nota come 'Largo di Castello', dov'è situato il Maschio Angioino, fu fatta chiamare Piazza Municipio dal sindaco massone Giuseppe Colonna. In quei giorni la banda di Pagliaccello, di Cerignola, fu dispersa dai cavalleggeri 'Lucca', che fucilarono 21 patrioti. Duro colpo anche alla banda di Crocco che il 25 aprile 1862, alla masseria Stragliacozza, subì un improvviso attacco dai piemontesi che riuscirono a metterla in fuga, uccidendone 25 uomini. Alla fine del mese, il 28 aprile, Vittorio Emanuele si recò a Napoli a bordo della nave 'Maria Adelaide' e fece un donativo alla statua di S. Gennaro per ingraziarsi i Napoletani. Ma S. Gennaro non abboccò e non fece il 'miracolo'. Crocco, nonostante le dure sconfitte, continuò eroicamente le sue azioni di guerra e il 7 maggio sterminò a Zungoli un distaccamento del 37° fanteria. Tuttavia il giorno dopo, tra Canosa e Minervino, i patrioti di Summa persero 15 uomini per un fortunoso attacco dei cavalleggeri. Nell'occasione fu ferito Ninco-Nanco. Nel prosieguo dell'azione alcune guardie nazionali catturarono una donna, la quale portava in campagna un pezzo di pane al figlio che essi ritenevano un patriota. La legarono, la fecero inginocchiare e la fucilarono. Il 7 maggio esplose anche lo scandalo riguardante la concessione degli appalti per la costruzione delle ferrovie meridionali al massone Adami. Il direttore del giornale 'Espero' di Torino che aveva avuto il coraggio di denunciare alla pubblica opinione le speculazioni commesse dal Bertani e dall'Adami, fu condannato per diffamazione e per ingiurie a due mesi di carcere e a 300 lire di multa. Naturalmente lo scandalo, che cointeressava anche una trentina di deputati piemontesi, fu insabbiata alla maniera piemontese. Chiavone invase e saccheggiò Fontechiari il 10 maggio. Intanto, allo scopo di impossessarsi dell'industria napoletana del gas per ricompensare gli inglesi dell'aiuto ricevuto, i governanti piemontesi avevano subdolamente fatte fare numerose critiche per la qualità del servizio, indicendo una gara per una nuova concessione. Alla gara si presentarono numerosi concorrenti, ed il 12 maggio 1862 venne firmato il nuovo contratto di appalto dell'illuminazione a gas con la ditta Parent, Shaken and Co. La nuova Società venne costituita il 18 ottobre dello stesso anno con il nome di 'Compagnia Napoletana d'Illuminazione e Scaldamento col Gaz', che verso la fine dell'anno seguente inaugurò un nuovo opificio nella zona dell'Arenaccia lungo il fiume Sebeto. Il 18 maggio le collaborazioniste guardie nazionali di Ariano, incontrati presso Sprinia i patrioti di Parisi, si rifiutarono di battersi e si diedero alla fuga, ma ne furono catturate 14. A Catania vi fu un'insurrezione lo stesso 18 maggio, ma fu rapidamente repressa dalle truppe piemontesi che massacrarono 49 civili. Il giorno dopo Chiavone conquistò Fontechiari e Pescosolido, riunendosi con i patrioti di Tamburini e Pastore. Con tutte queste forze tentano di assalire anche Castel di Sangro, ma vennero respinti e costretti a rifugiarsi nel territorio pontificio. A Roma, intanto, erano avvenute le nozze tra Maria Annunziata, una delle prime figlie di Ferdinando II, e l'arciduca Carlo Lodovico, fratello dell'imperatore Francesco Giuseppe. Da questo matrimonio nacque l'erede al trono dell'Austria-Ungheria, Francesco Ferdinando, che fu sempre uno strenuo nemico dell'Italia dei Savoia. L'uccisione di Francesco Ferdinando a Serajevo nel 1914 fu la causa che fece scoppiare la I guerra mondiale. Il 29 maggio fu catturato e poi fucilato a Mola di Gaeta il conte rumeno Edwin Kalchrenth, il famoso capo patriota 'conte Edwino', ex ufficiale della cavalleria borbonica che operava unitamente a Chiavone nella Terra del Lavoro e negli Abruzzi. In giugno i patrioti non diedero tregua ai piemontesi. Il giorno 2, il 44° fanteria fu attaccato al confine tra Abruzzi e Terra del Lavoro, perdendovi cinque uomini. Il 7 giugno Chiavone invase Pescosolido, dove fece rifornimenti per il suo raggruppamento. Ad Acqua Partuta, nel beneventano, il 14 giugno, i patrioti uccisero 11 guardie nazionali e 4 carabinieri che li avevano assaliti. Numerosi patrioti di Guardiagrele attaccarono Gamberale, ma furono respinti da reparti del 42° fanteria. Il giorno 15, la legione ungherese in un drammatico ed imprevisto scontro distrusse nel bosco di Montemilone una banda partigiana di 27 uomini. Presso Ginestra la banda Tortora in uno scontro con gli stessi ungheresi perse 13 uomini. Poi, il giorno dopo, alla masseria La Croce la 4ª compagnia del 33° bersaglieri fu assalita da Crocco e da Coppa, subendo molte perdite, ma a S. Marco in Lamis fu catturato il capo patriota Angelo Maria del Sambro e quattro suoi compagni, tra cui il dottor Nicola Perifano, già chirurgo del 3° Dragoni napoletano, più volte decorato. Furono tutti immediatamente fucilati. Numerosi furono gli scontri tra i piemontesi, particolarmente tra il 61° ed il 62°, contro i patrioti che presidiavano i boschi di Monticchio, di Lagopesole e di S. Cataldo. Il 17 giugno Chiavone, dopo essersi riunito con i patrioti abruzzesi di Luca Pastore e di Nunzio Tamburini sull'altopiano delle Cinque Miglia, invase Pietransieri e attaccò Castel di Sangro, dove però fu respinto. Rientrato nel territorio pontificio, tuttavia, il Tristany il 28 giugno lo fece arrestare e processare da un consiglio di guerra, che lo condannò a morte per rapina e omicidio. La fucilazione di Chiavone volle essere anche un esempio per far attenere i patrioti alle direttive impartite dal Comitato Borbonico. Tutta la penisola sorrentina intanto veniva continuamente rastrellata da numerosi reparti piemontesi, ma senza alcun esito. A Torre del Greco il 7° fanteria, rinforzato da colonne mobili della guardia nazionale, riuscirono a circondare sulle alture della cittadina il gruppo di combattimento di Pilone. Dopo un furioso combattimento, il grosso dei patrioti di Pilone, riuscì a sganciarsi, ma con numerose perdite e molti prigionieri, che il giorno dopo furono fucilati dai piemontesi. Dopo qualche giorno Pilone attaccò temerariamente in località Passanti una colonna di truppe piemontesi, liberando anche alcuni prigionieri che stavano per essere fucilati. Garibaldi, nel frattempo, che era comparso nuovamente in Sicilia il 20 maggio per fomentare una rivolta diretta alla conquista di Roma, si recò Il 29 giugno a Palermo, dov'erano in visita i principi Umberto e Amedeo. Il giorno dopo, al Teatro 'Garibaldi', pronunciò uno sconclusionato discorso, affermando che se fosse stato necessario avrebbe fatto un altro Vespro Siciliano. All'indomani si recò alla Ficuzza per arruolare volontari da impiegare per la conquista di Roma e di Venezia. La Capitanata, il Gargano e la Terra di Bari erano in concreto nelle mani dei patrioti. Lo stillicidio delle continue perdite subìte in luglio dai piemontesi indusse il governo piemontese a sostituire il comandante della zona, generale Seismit-Doda, con il generale massone Gustavo Mazé de la Roche. Costui, per tagliare i rifornimenti ai gruppi patrioti, fece incendiare i pagliai, fece murare le porte e finestre delle masserie e fece arrestare tutte le persone che circolavano fuori degli abitati. La reazione dei patrioti fu immediata con la rapida invasione di grossi paesi, come Torremaggiore, con la razzia di molte mandrie, con l'incendio di masserie e con ripetuti attacchi, nei pressi di S. Severo, ai cantieri della ferrovia Pescara-Foggia allora in costruzione. Il 30 giugno 1862 il generale Tristany, per dare un esempio, fece fucilare due capi patrioti, Antonio Teti e Giuseppe de Siati, che, quali armati per la lotta di liberazione delle Due Sicilie, avevano commesso illegittimamente alcuni furti durante azioni di guerriglia. Il Tristany aveva voluto, con quest'episodio, improntare esclusivamente con carattere militare le azioni guerrigliere dirette soprattutto contro le pattuglie piemontesi in perlustrazione nelle campagne. Lo stesso giorno la banda dei patrioti comandata dai fratelli Ribera partì da Malta e sbarcò a Pantelleria, allo scopo di liberare l'isola dai piemontesi e per ripristinare il governo borbonico. Con l'aiuto di tutta la popolazione, i patrioti compirono numerose azioni contro i traditori collaborazionisti e le guardie nazionali che prevaricavano sulla gente. Il 1° luglio il Re Francesco II protestò da Roma contro il riconoscimento fatto dai vari Stati europei ai Savoia come re d'Italia. Nei primi giorni di luglio, il famoso comandante patriota Giuseppe Tardio, uno studente di Piaggine Soprano, che aveva organizzato il suo gruppo di combattimento nell'ottobre del 1861 nella zona di Agropoli, dopo aver eliminate le guardie nazionali che incontrava, invase con i suoi uomini prima Futani e poi Abatemarco, Laurito, Foria, Licusati, Centola e Camerota. Nella sua avanzata gli si aggregarono molte centinaia di patrioti, che in seguito dovettero tuttavia disperdersi per i continui attacchi delle truppe piemontesi. Il 6 luglio Garibaldi, in occasione di una rivista alla guardia nazionale a Palermo, pronunziò davanti alle autorità un violento discorso contro Napoleone III che riteneva responsabile del brigantaggio. Altro scontro dei patrioti di Crocco avvenne il 14 luglio a Lacedonia con i bersaglieri, che persero cinque uomini. Si ebbero nel mese ancora numerosi scontri tra piemontesi e patrioti, che attaccavano all'improvviso ed improvvisamente sparivano. Il 16 luglio un reparto del 17° bersaglieri, in un durissimo e prolungato combattimento, uccise il comandante partigiano Malacarne (fratello del famoso Sacchettiello) ed altri sei patrioti. Il 19 luglio molti patrioti abruzzesi attaccarono presso Fossacesia il magazzino degli imprenditori ferroviari Martinez, uccidendo alcuni tecnici, e invasero l'abitato che fu saccheggiato. Ad Amalfi però la superiorità partigiana si manifestò in tutta la sua evidenza quando il 22 luglio i partigiani occuparono la città, tenendola addirittura per due giorni. Lo stesso giorno, tuttavia, la bestiale legione ungherese uccise 12 patrioti a Tortora. Alla fine di luglio, sui monti del Matese, nelle zone di Piedimonte d'Alife e di Cerreto Sannita, i gruppi di combattimento patrioti di Cosimo Giordano, Padre Santo e De Lellis contrastarono ferocemente e vittoriosamente i rastrellamenti effettuati dai reparti del 39° e 40° fanteria. Il 26 luglio, dopo un lungo silenzio, i patrioti del sergente Romano invasero Alberobello, dove, eliminate le guardie nazionali, si rifornirono di tutte le loro armi e munizioni. Agli inizi di agosto 1862 i gruppi patrioti del Pizzolungo e dello Scenna, in numero di 200, invasero nel Vastese le cittadine di Villalfonsina, Carpineto, Guilmi, Roio, Monteferrante, Colle di Mezzo, Pennadomo e Roccascalegna, dove saccheggiarono le case dei collaborazionisti con i piemontesi e li trucidarono. In Pantelleria la banda Ribera non riuscì in un tentativo di giustiziare il sindaco, connivente dei piemontesi, ma inflisse numerose perdite ai reparti piemontesi che li inseguivano. L'imprendibilità e le quasi sempre vittoriose azioni dei patrioti di Ribera indussero i piemontesi ad inviare nell'isola altra 500 soldati sotto il comando del feroce colonnello Eberhard, già sperimentato in azioni di controguerriglia nel continente. La continua opera di reclutamento e di propaganda di Garibaldi, finalizzata a conquistare anche Roma, indusse Vittorio Emanuele ad emanare il 3 agosto un proclama con cui, senza mai nominare il nizzardo, condannava la sua iniziativa. Il 4 agosto il gruppo patriota di Abriola invase e saccheggiò le case di alcuni traditori di Campomaggiore. Fra il 3 ed il 5 agosto, disgustati per l'ingrata opera di repressione, gli usseri e la fanteria ungherese stanziati a Lavello, Melfi e Venosa si misero in movimento per concentrarsi a Nocera, ma, bloccati e disarmati dai piemontesi, furono imbarcati a Salerno il 13 agosto per ordine di La Marmora, che li fece trasportare in piemonte. 150 ungheresi tuttavia riuscirono a fuggire con lo scopo di raggiungere Garibaldi. Sulle montagne tra Castro e Falvaterra, i patrioti, approfittando del marasma causato da Garibaldi, si lanciarono in una cruenta offensiva e invasero i comuni di Campomaggiore, nel potentino, e Flumeri, nell'avellinese. La cittadina di Sturno fu occupata e tenuta fino al 7. Intensi combattimenti vi furono per tutto il mese nell'Alta Irpinia: a Bisaccia, Guardia Lombardi, Monteleone, Pescopagano, Avigliano, S. Sossio, Ariano, Genzano, Frigenti. Ogni piemontese scovato era immediatamente fucilato. Il 6 agosto Garibaldi si scontrò a S. Stefano di Bivona con le truppe piemontesi e si ebbero alcuni morti da ambo le parti. A Fantina, in Sicilia, sette volontari per Garibaldi della colonna Tasselli, dei quali cinque disertori piemontesi, vennero catturati da un reparto del 47° fanteria, comandato dal maggiore De Villata, e fucilati sul posto. Trentadue ufficiali della brigata 'piemonte', che avevano dato le dimissioni nei pressi di Catania, furono arrestati e privati del grado dal Consiglio di disciplina di Torino, per 'mancanza contro l'onore'. A Torino, fu varata una legge che disponeva una 'spesa straordinaria' di lire 23.494.500 per l'acquisto e la fabbricazione di 676.000 fucili da destinarsi alle guardie nazionali. Verso la metà del mese vi fu un'evasione in massa dal carcere di Granatello di Portici di detenuti politici, che andarono ad ingrossare le bande partigiane. Nel frattempo, mentre il 13 agosto in Capitanata i patrioti avevano occupato Zapponeta ed otto comuni del Vastese, Garibaldi scorrazzava per la Sicilia, entrando in Catania il 18 agosto. La Marmora proclamò il 20 lo stato d'assedio in tutta la Sicilia e dichiarò ribelle Garibaldi, che si accingeva a risalire la penisola con il suo Corpo di Volontari. Il 22 agosto al massone Bastogi fu concesso l'appalto per la costruzione delle ferrovie nel sud dell'Italia, per cui fu costituita la società delle Strade Ferrate Meridionali. Nel consiglio d'amministrazione della società facevano parte ben 14 deputati piemontesi, che erano stati anche ricompensati con 675.000 lire per il loro 'interessamento'. Vice presidente della società fu nominato Bettino Ricasoli. Lo Stato accordò un sussidio a Bastogi di 20 milioni di lire e lo sfruttamento per 90 anni dei 1.365 chilometri di ferrovia. Tra i finanziatori vi erano la Cassa del Commercio di Torino, i fratelli ebrei massoni Isaac e Emile Pereire di Parigi, e la società di Credito mobiliare spagnolo (di cui Nino Bixio era consigliere di amministrazione). Tra i vari possessori delle azioni della società figuravano molti massoni, tra cui il fratello di Cavour, il marchese Gustavo, il Nigra, il Tecchio, il Bomprini, il Denina, il Beltrami. Dopo lo sbarco di Garibaldi, il 24 a Pietra Falcone, sulla spiaggia tra Melito e Capo d'Armi, lo stato d'assedio fu esteso il 25 agosto a tutto il Mezzogiorno. Approfittando dello stato d'assedio i piemontesi saccheggiarono moltissime chiese, rubando ogni oggetto prezioso. Fu soppressa la libertà di stampa e di riunione. Anche la posta fu censurata. Fu instaurata una feroce dittatura militare. I principali comandanti patrioti di Terra d'Otranto, allora, si riunirono nel bosco di Pianella, a nord di Taranto, per concordare l'unitarietà del comando e la condotta delle operazioni, con lo stabilire le zone di competenza. Il sergente Romano ebbe a disposizione oltre 300 uomini a cavallo, suddivisi agli ordini dei luogotenenti Cosimo Mazzeo (Pizzichicchio), Giuseppe Nicola La Veneziana, F.S. L'Abbate, Antonio Lo Caso (il capraro), Riccardo Colasuonno (Ciucciariello), Francesco Monaco (ex sottufficiale borbonico) e Giuseppe Valente (Nenna-Nenna, ex ufficiale garibaldino). In quei giorni, tutta la Terra d'Otranto rimase sotto il totale controllo dei patrioti. Sull'Aspromonte il 29 agosto, a seguito di un brusco voltafaccia del governo savoiardo (che fino allora l'aveva nascostamente appoggiato), vi fu uno scontro tra le truppe piemontesi e gli avventurieri di Garibaldi, che fu intenzionalmente ferito e fatto prigioniero. I piemontesi subito dopo gli scontri fucilarono a Fantina, senza alcun processo, sette disertori piemontesi che erano con Garibaldi, che a seguito della cattura fu rinchiuso per qualche tempo nel forte di Verignano. Pochissimi popolani l'avevano seguito nell'avventura, la maggior parte erano piemontesi disertori. Il Tribunale Militare degli invasori piemontesi emise in seguito 109 condanne a morte, 19 ergastoli e 93 condanne ai lavori forzati. Il Savoia, per questi fatti, concesse 76 medaglie al valore. Il 31 agosto un reparto del 18° bersaglieri uccise tredici patrioti ad Apice, in provincia di Benevento. I patrioti di Tristany ebbero uno scontro a fuoco con gli zuavi pontifici nei pressi di Falvaterra e a Castronuovo. Numerosi patrioti a cavallo attaccarono agli inizi di settembre reparti piemontesi di stanza nell'Irpinia a Flumeri, a S. Sossio ed a Monteleone, alla masseria Franza (Ariano) e nei boschi di S. Angelo dei Lombardi. Il 6 settembre i patrioti riuscirono a disarmare la guardia nazionale di Colliano, in provincia di Campagna. Notevole, il 7 settembre 1862, lo scontro alla masseria Canestrelle, nel Nolano, di bersaglieri e cavalleggeri che attaccarono un gruppo di duecento patrioti, che furono costretti a disperdersi, perdendo tuttavia 15 uomini. Dopo qualche giorno, il giorno 11 settembre, i patrioti di Crocco e di Sacchetiello si vendicarono alla masseria Monterosso di Rocchetta S. Antonio (Foggia) attaccando un drappello di venti bersaglieri del 30° battaglione che furono tutti uccisi. A Carbonara i patrioti di Sacchetiello massacrarono 25 bersaglieri del 20° battaglione, comandati dal sottotenente Pizzi. Aliano e Serravalle furono liberate dai patrioti che minacciarono di invadere anche Matera. In Pantelleria, nel frattempo, i piemontesi, che avevano instaurato in tutta l'isola una feroce legge marziale, riuscirono a convincere quasi quattrocento isolani a collaborare con le truppe savoiarde. Formate tre colonne, il colonnello Eberhard, governatore militare dell'isola, fece avanzare il 18 settembre le truppe a raggiera per setacciare tutta l'isola. I patrioti erano nascosti in una profonda caverna posta quasi sulla sommità della Montagna Grande a 848 metri si altezza, in una posizione imprendibile, ma traditi da un pecoraio furono circondati e dopo una sparatoria, in cui morirono alcuni piemontesi, furono costretti ad arrendersi a causa del fumo di zolfo acceso davanti alla caverna che aveva reso l'aria irrespirabile. I patrioti ammanettati, laceri e smunti, furono fatti sfilare nelle strade di Pantelleria al suono di un tamburo e col tricolore spiegato, tra ali di gente commossa fino alle lagrime. Tutte le spese dell'operazione, lire 637, furono a carico del comune. Furono incarcerati a Trapani, ma alcuni, tra cui due fratelli Ribera, riuscirono a evadere dalle carceri della Colombaia. Dei rimanenti 14, processati il 14 giugno 1867, 10 furono condannati a morte per impiccagione e gli altri ai lavori forzati. A Roma, in quei giorni, Francesco II si trasferì con tutta la sua corte nel Palazzo Farnese, che era di proprietà dei Borbone, dopo averlo fatto ristrutturare, poiché erano secoli che non era stato abitato. Il 1° ottobre a Palermo furono accoltellati simultaneamente, in luoghi diversi, tredici persone. Uno degli accoltellatori, inseguito e arrestato, confessò che gli era stato ordinato da un 'guardapiazza' (quello che oggi viene chiamato mafioso) di colpire alla cieca e che erano stati pagati con danaro proveniente dal principe Raimondo Trigona di Sant'Elia, senatore del regno, delegato da Vittorio Emanuele II. Da successivi controlli fatti dal piemontese sostituto procuratore del re Guido Giacosa, evidentemente all'oscuro delle criminali intenzioni del governo piemontese, venne accertato che i moltissimi omicidi, avvenuti anche prima e molti altri dopo, avevano il solo scopo di 'sconvolgere l'ordine' per poter permettere e giustificare la feroce repressione così da eliminare impunemente la resistenza siciliana antipiemontese. L'indagine, che portò a riconoscere la responsabilità di quei sanguinosi crimini al reggente della questura palermitana, il bergamasco (ma messinese di nascita) Giovanni Bolis, antico affiliato carbonaro con La Farina, fu, comunque, subito chiusa. In quel mese di ottobre 1862 vi furono moltissime, alcune violente, manifestazioni di quasi tutte le popolazioni delle Puglie e della Basilicata. I contadini si rifiutarono di eseguire i lavori nei campi per protestare contro gli abusi e le violenze dei soldati piemontesi. Alcuni contadini furono fucilati "per dare l'esempio" dalle truppe piemontesi. Un gruppo di patrioti di Romano, comandato da Valente, riunitisi nella masseria S. Teresa, decisero di attaccare la guardia nazionale e i carabinieri di Cellino e S. Pietro Vernotico, che li braccavano. Tre militari furono uccisi 'perché portavano il pizzo all'italiana' e nove, furono sfregiati con l'asportazione di un lembo dell'orecchio, per essere così 'pecore segnate'. I gruppi di Tardio invasero i paesi di S. Marco La Bruna, Sacco e S. Rufo, dove sgominarono le guardie nazionali e ne saccheggiarono le case. Il 24 ottobre Tristany si scontrò sul confine pontificio con le truppe francesi e subì la perdita di due ufficiali. Nel mese di ottobre, essendosi fatta insostenibile la sistemazione dei prigionieri di guerra e dei detenuti politici, con la deportazione degli abitanti d'interi paesi, con le "galere" piene fino all'inverosimile, il governo piemontese diede incarico al suo ambasciatore a Lisbona di sondare la disponibilità del governo portoghese a cedere un'isola disabitata dell'Oceano Atlantico, al fine di relegarvi l'ingombrante massa di molte migliaia di persone da eliminare definitivamente. Il tentativo diplomatico, tuttavia, non ebbe successo, ma la notizia riportata il 31 ottobre dalla stampa francese suscitò una gran ripugnanza nell'opinione pubblica. Il maggiore piemontese Aichelburg con fanti e bersaglieri attaccò il 2 novembre a Tremoleto i patrioti di Petrazzi, uccidendo 9 guerriglieri. Tutto il Sud fu diviso in zone e sottozone con posti fissi di polizia e fu raddoppiato il numero dei carabinieri. I guerriglieri di Romano subirono una pesante sconfitta il 4 novembre presso la masseria Monaci. Per quest'avvenimento Romano divise le sue bande in piccoli gruppi più manovrabili, seguendo la tattica di Crocco. A S. Croce di Magliano duecento patrioti di Michele Caruso attaccarono il 5 novembre la 13ª compagnia del 36° fanteria, massacrando il comandante ex garibaldino dei 'mille', capitano Rota, e ventitré piemontesi. Il giorno dopo, inseguiti da un battaglione del 55° fanteria, gli stessi patrioti tesero loro un agguato e uccisero un sergente e tre soldati, senza subire perdite. A Torre di Montebello una compagnia di bersaglieri del 26° e cavalleggeri del 'Lucca' in un furibondo combattimento distrusse l'8 novembre l'intera banda di Pizzolungo. Quelli che furono fatti prigionieri furono immediatamente fucilati. Il 16 novembre, nonostante l'opposizione di La Marmora, fu revocato da Rattazzi lo stato d'assedio nelle provincie meridionali, ma in realtà rimasero ancora in vigore la soppressione ed il divieto di introdurre nel Mezzogiorno di tutta la stampa non governativa e la sospensione delle libertà d'associazione e di riunione. Addirittura furono intensificati gli arresti di semplici cittadini solo per il fatto di essere 'sospetti' patrioti borbonici. In Capitanata, per ordine del generale Mazé de la Roche e del prefetto De Ferrari, furono compilate liste d'assenti dal proprio domicilio e dei sospetti, furono istituiti fogli di via senza dei quali nessuno poteva uscire dagli abitati, imposero l'abbandono delle masserie e il divieto di portare generi alimentari nelle campagne. Così nell'avellinese furono perquisite e saccheggiate le case degli assenti, ai contadini fu ordinato di trasferirsi nei paesi con le masserizie, il bestiame ed il raccolto. Divenne sistematico l'arresto dei parenti fino al terzo grado dei patrioti. Le popolazioni, che già vivevano nel terrore e nei soprusi dei piemontesi, vissero in quei lunghi mesi in modo veramente tragico, anche perché ogni attività lavorativa fu in pratica soppressa e la vita economica e sociale ne fu paralizzata. Il 17 novembre, per reazione, vi furono in vari paesi molti attentati a esponenti liberali da parte dei patrioti. A Grottaglie i patrioti di 'Pizzichicchio' s'impadronirono addirittura della cittadina, dove liberarono i detenuti dalle carceri e eliminarono tutti i possidenti liberali, che erano stati particolarmente oppressivi con i loro braccianti, devastandone e saccheggiandone le abitazioni. Furono abbattuti gli stemmi sabaudi e ripristinati le insegne borboniche tra le grida di esultanza di tutta la popolazione e financo del sindaco, che giorni dopo fu arrestato dai piemontesi. Il generale Franzini fece uccidere il 20 novembre alla masseria Lamia nove patrioti delle bande di Petrozzi e Schiavone, catturati di sorpresa. L'indomani a Rapolla, nei pressi di Ponte Aguzzo, uno squadrone cavalleggeri 'Saluzzo' attaccò un centinaio di patrioti di Crocco che perdette nove uomini. Altri venti, tra feriti e catturati, furono subito fucilati. I patrioti di Romano, in quel giorno, invasero le cittadine di Carovigno ed Erchie, disperdendone la guardia nazionale e saccheggiando le abitazioni dei liberali conniventi dei piemontesi. Il giorno 27 furono sorpresi a Casacalenda in una chiesa due patrioti che, dopo essere stati incarcerati a Larino, furono fucilati 'per tentata fuga' due giorni dopo. Alla fine di novembre, morto il generale borbonico Statella, che da Roma ne coordinava le azioni, nonostante gli appoggi forniti dal generale Bosco, il gruppo di combattimento del colonnello Tristany si dissolse. Gli ufficiali stranieri se ne tornarono ai loro paesi e i gregari si riversarono in altri gruppi patrioti. Il primo dicembre un reparto del 10° fanteria, per effetto di una delazione, riuscì a sorprendere alla masseria Monaci, nei pressi d'Alberobello, alcuni gruppi patrioti di Romano, di cui fucilarono 14 uomini, compreso il capo partigiano La Veneziana. Il giorno 11 dicembre i patrioti a cavallo di Michele Caruso assaltarono vittoriosamente a Torremaggiore la 13ª compagnia del 55° fanteria, che tornava da Castelnuovo Daunia, dove aveva compiuto operazioni di leva. A Ururi i piemontesi con uno stratagemma arrestarono il sindaco, tutti i consiglieri ed il prete come 'sospetti' e li fecero incarcerare a Larino. A S. Croce di Magliano, su segnalazione del sindaco massone De Matteis, furono inviate truppe piemontesi a circondare le masserie Verticchio, De Matteis e Mirano, dove sono sorpresi e fucilati quattro patrioti. Nella stessa zona il comandante della guardia nazionale di S. Martino, il massone conte Bevilacqua, con cento uomini e una compagnia di fanti piemontesi riuscirono a catturare in un bosco circa 47 patrioti, che furono tutti fucilati a Larino. Il 14 dicembre, a Napoli, nel carcere di S. Maria Apparente vi furono violenti tumulti per le condizioni inumane in cui erano tenuti i prigionieri. Vivevano in fetore insopportabile. Erano stretti insieme assassini, sacerdoti, giovanetti, vecchi, miseri popolani e uomini di cultura. Senza pagliericci, senza coperte, senza luce. Un carcerato venne ucciso da una sentinella solo perché aveva profferito ingiurie contro i Savoia. Spesso le persone imprigionate non sapevano nemmeno di cosa fossero accusati ed erano loro sequestrati tutti i beni. Spesso la ragione per cui erano imprigionati era solo per rubare loro il danaro che possedevano. Molti non erano nemmeno registrati, sicché solo dopo molti anni venivano processati e condannati senza alcuna spiegazione logica. Questo era il governo dei Savoia, 'vera negazione di Dio'. A Torino, per acquietare l'opinione pubblica, fu nominata il 15 dicembre una Commissione d'inchiesta sul 'brigantaggio', dopo che vi erano state numerose denunce contro le barbarie commesse dalle truppe piemontesi contro patrioti che difendevano la libertà delle loro terre. Un deputato, Giuseppe Ferrari, federalista convinto, aveva detto '...potete chiamarli briganti, ma i padri di questi briganti hanno per due volte rimesso i Borbone sul trono di Napoli... Ma in che consiste il brigantaggio ' nel fatto che 1.500 uomini tengono testa a un regno e ad un esercito. Ma sono semidei, dunque, sono eroi ! ...Io mi ricordo che vi dissi che avendo visitato le province meridionali avevo veduto una città di cinquemila abitanti distrutta, e da chi ' dai briganti ' NO!' La città era Pontelandolfo. Il 17 dicembre i bersaglieri del 29° battaglione riuscirono a sgominare i patrioti dell'avvocato Giacomo Giorgi presso Palata, nel Molise, dove uccisero 5 patrioti, catturando anche una partigiana. La banda di Carbone fu accerchiata il 20 dicembre da fanteria, cavalleria e guardie nazionali nella masseria Boreano, nei pressi di Melfi. Furono tutti uccisi appena catturati. Il 21 dicembre cavalleggeri piemontesi sorpresero nella cascina Barcana, nei pressi di Venosa, una ventina di patrioti che fecero morire atrocemente tra le fiamme. Il 23 dicembre, migliaia di cittadini di Napoli, inviarono una petizione al Re Francesco II con la quale, nell'indicare le barbarie degli invasori piemontesi, riaffermavano la fedeltà alla monarchia dei Borbone e la speranza di un prossimo ritorno sul trono delle Due Sicilie. Il giorno 29 lo squadrone cavalleggeri 'Saluzzo', stanziati a Gioia del Colle, salvarono un drappello di guardie nazionali di Acquaviva che erano stati circondati dai patrioti. In Capitanata, reparti dell'8°, del 36° e del 49° fanteria, comandati dal colonnello Favero, attaccati il 31 dicembre 1862 da un consistente numero di patrioti vennero sterminati con perdite superiori ai 150 morti. L'anno 1862 si chiuse .... ...con una relazione alla Camera di Torino sulla situazione nell'ex Regno delle Due Sicilie con i dati ufficiali di 15.665 fucilati, 1.740 imprigionati, 960 uccisi in combattimento. Gli scontri a fuoco di una certa consistenza nell'anno furono 574. I meridionali emigrati all'estero furono circa 6.800 persone. Le forze piemontesi di occupazione risultarono costituite da 18 reggimenti di fanteria, 51 'quarti' battaglioni di altri reggimenti, 22 battaglioni bersaglieri, 8 reggimenti di cavalleria, 4 reggimenti di artiglieria. Nei territori delle Due Sicilie si contavano circa 400 bande di patrioti legittimisti, comandate per la maggior parte da ex militari borbonici. Il Piemonte, che era lo Stato più indebitato d'Europa, si salvò dalla bancarotta disponendo alla fine dell'anno l'unificazione del 'suo' debito pubblico con gli abitanti dei territori conquistati. Furono venduti, con prezzi irrisori, ai traditori liberali tutti i beni privati dei Borbone e gli stabilimenti pubblici civili e militari delle Due Sicilie. Tutte le spese per la 'liberazione' e dei lavori pubblici (affidati alle speculazioni delle imprese lombardo-piemontesi) furono addebitate proprio alle regioni 'liberate' (!!). Anche l'arretrato sistema tributario piemontese fu applicato nel Napoletano ed in Sicilia, che fino allora avevano avuto un sistema fiscale mite, razionale, semplice e soprattutto efficace nell'imposizione e nella riscossione, indubbiamente tra i migliori in Europa. Al Sud fu applicato un aumento di oltre il 32 per cento delle imposte, mentre gli fu attribuito meno del 24 per cento della ricchezza 'italiana'. Del resto era l'avverarsi di ciò che pochi secoli prima aveva detto Emanuele Filiberto di Savoia ('L'Italia' E' un carciofo di cui i Savoia mangeranno una foglia alla volta').

23/2/2005

Ed ora un'altra pagine di atrocità e vergogna su cui i nostri "storici" o glissano o minimizzano.A chi legge il giudizio ultimo.

IL TALLONE DI FERRO DEI SAVOIA - Dopo la conquista del Sud, 5212 condanne a morte. 
Prigionieri e ribelli puniti con decreti e una legge del 1863

MIGLIAIA DI SOLDATI BORBONICI
DEPORTATI NEI LAGER DEL NORD
di STEFANIA MAFFEO
 
Cinquemiladuecentododici condanne a morte, 6564 arresti, 54 paesi rasi al suolo, 1 milione di morti. Queste le cifre della repressione consumata all'indomani dell'Unità d'Italia dai Savoia. La prima pulizia etnica della modernità occidentale operata sulle popolazioni meridionali dettata dalla Legge Pica, promulgata dal governo Minghetti del 15 agosto 1863 "… per la repressione del brigantaggio nel Meridione"[1].
Questa legge istituiva, sotto l'egida savoiarda, tribunali di guerra per il Sud ed i soldati ebbero carta bianca, le fucilazioni, anche di vecchi, donne e bambini, divennero cosa ordinaria e non straordinaria. Un genocidio la cui portata è mitigata solo dalla fuga e dall'emigrazione forzata, nell'inesorabile comandamento di destino: "O briganti, o emigranti"
Lemkin, che ha definito il primo concetto di genocidio, sosteneva: "… genocidio non significa necessariamente la distruzione immediata di una nazione…esso intende designare un piano coordinato di differenti azioni miranti a distruggere i fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali. Obiettivi di un piano siffatto sarebbero la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, della lingua, dei sentimenti nazionali, della religione e della vita economica dei gruppi nazionali e la distruzione della sicurezza personale, della libertà, della salute, della dignità e persino delle vite degli individui…non a causa delle loro qualità individuali, ma in quanto membri del gruppo nazionale".
Deportazioni, l'incubo della reclusione, persecuzione della Chiesa cattolica, profanazioni dei templi, fucilazioni di massa, stupri, perfino bambine (figlie di "briganti") costretti ai ferri carcerari. Una pagina non ancora scritta è quella relativa alle carceri in cui furono rinchiusi i soldati "vinti". Il governo piemontese dovette affrontare il problema dei prigionieri, 1700 ufficiali dell'esercito borbonico (su un giornale satirico dell'epoca era rappresentata la caricatura dell'esercito borbonico: il soldato con la testa di leone, l'ufficiale con la testa d'asino, il generale senza testa) e 24.000 soldati, senza contare quelli che ancora resistevano nelle fortezze di Gaeta, Messina e Civitella del Tronto.
Ma il problema fu risolto con la boria del vincitore, non con la pietas che sarebbe stata più utile, forse necessaria. Un primo tentativo di risolvere il problema ci fu con il decreto del 20 dicembre 1860, anche se le prime deportazioni dei soldati duosiciliani incominciarono già verso ottobre del 1860, in quanto la resistenza duosiciliana era iniziata con episodi isolati e non coordinati nell'agosto del 1860, dopo lo sbarco dei garibaldini e dalla stampa fu presentata come espressione di criminalità comune. Il decreto chiamava alle armi gli uomini che sarebberostati di leva negli anni dal 1857 al 1860 nell'esercito delle Due Sicilie, ma si rivelò un fallimento. Si presentarono solo 20.000 uomini sui previsti 72.000; gli altri si diedero alla macchia e furono chiamati "briganti". (nel '43, dopo l'8 settembre, accadde quasi la stessa cosa, ma dato che vinsero (gli anglo-americani) la lotta la chiamarono di "resistenza" , e gli uomini "partigiani". Ndr.)
A migliaia questi uomini furono concentrati dei depositi di Napoli o nelle carceri, poi trasferiti con il decreto del 20 gennaio 1861, che istituì"Depositi d'uffiziali d'ogni arma dello sciolto esercito delle Due Sicilie".
La Marmora ordinò ai procuratori di "non porre in libertà nessuno dei detenuti senza l'assenso dell'esercito".Per la maggior parte furono stipati nelle navi peggio degli animali (anche se molti percorsero a piedi l'intero tragitto) e fatti sbarcare a Genova, da dove, attraversando laceri ed affamati la via Assarotti, venivano smistati in vari campi di concentramento istituiti a Fenestrelle, S. Maurizio Canavese, Alessandria, nel forte di S. Benigno in Genova, Milano, Bergamo, Forte di Priamar presso Savona, Parma, Modena, Bologna, Ascoli Piceno ed altre località del Nord.
Presso il Forte di Priamar fu relegato l'aiutante maggiore Giuseppe Santomartino, che difendeva la fortezza di Civitella del Tronto. Alla caduta del baluardo abruzzese, Santomartino fu processato dai (vincitori) Piemontesi e condannato a morte. In seguito alle pressioni dei francesi la condanna fu commutata in 24 anni di carcere da scontare nel forte presso Savona. Poco dopo il suo arrivo, una notte, fu trovato morto, lasciando moglie e cinque figli. Si disse che aveva tentato di fuggire. Un esempio di morte sospetta su cui non fu mai aperta un'inchiesta per accertare le vere cause del decesso.
In quei luoghi, veri e propri lager, ma istituiti per un trattamento di "correzione ed idoneità al servizio", i prigionieri, appena coperti da cenci di tela, potevano mangiare una sozza brodaglia con un po' di pane nero raffermo, subendo dei trattamenti veramente bestiali, ogni tipo di nefandezze fisiche e morali. Per oltre dieci anni, tutti quelli che venivano catturati, oltre 40.000, furono fatti deliberatamente morire a migliaia per fame, stenti, maltrattamenti e malattie.

Quelli deportati a Fenestrelle [2], fortezza situata a quasi duemila metri di altezza, sulle montagne piemontesi, sulla sinistra del Chisone, ufficiali, sottufficiali e soldati (tutti quei militari borbonici che non vollero finire il servizio militare obbligatorio nell'esercito sabaudo, tutti quelli che si dichiararono apertamente fedeli al Re Francesco II, quelli che giurarono aperta resistenza ai piemontesi) subirono il trattamento più feroce.

Fenestrelle (nella foto di apertura) più che un forte, era un insieme di forti, protetti da altissimi bastioni ed uniti da una scala, scavata nella roccia, di 4000 gradini. Era una ciclopica cortina bastionata cui la naturale asperità dei luoghi ed il rigore del clima conferivano un aspetto sinistro. Faceva tanto spavento come la relegazione in Siberia. I detenuti tentarono anche di organizzare una rivolta il 22 agosto del 1861 per impadronirsi della fortezza, ma fu scoperta in tempo ed il tentativo ebbe come risultato l'inasprimento delle pene con i più costretti con palle al piede da 16 chili, ceppi e catene.
Erano stretti insieme assassini, sacerdoti, giovanetti, vecchi, miseri popolani e uomini di cultura. Senza pagliericci, senza coperte, senza luce. Un carcerato venne ucciso da una sentinella solo perché aveva proferito ingiurie contro i Savoia. Vennero smontati i vetri e gli infissi per rieducare con il freddo i segregati. Laceri e poco nutriti era usuale vederli appoggiati a ridosso dei muraglioni, nel tentativo disperato di catturare i timidi raggi solari invernali, ricordando forse con nostalgia il caldo di altri climi mediterranei.
Spesso le persone imprigionate non sapevano nemmeno di cosa fossero accusati ed erano loro sequestrati tutti i beni. Spesso la ragione per cui erano stati catturati era proprio solo per rubare loro il danaro che possedevano. Molti non erano nemmeno registrati, sicché solo dopo molti anni venivano processati e condannati senza alcuna spiegazione logica.
Pochissimi riuscirono a sopravvivere: la vita in quelle condizioni, anche per le gelide temperature che dovevano sopportare senza alcun riparo, non superava i tre mesi. E proprio a Fenestrelle furono vilmente imprigionati la maggior parte di quei valorosi soldati che, in esecuzione degli accordi intervenuti dopo la resa di Gaeta, dovevano invece essere lasciati liberi alla fine delle ostilità.
Dopo sei mesi di eroica resistenza dovettero subire un trattamento infame che incominciò subito dopo essere stati disarmati, venendo derubati di tutto e vigliaccamente insultati dalle truppe piemontesi.
La liberazione avveniva solo con la morte ed i corpi (non erano ancora in uso i forni crematori) venivano disciolti nella calce viva collocata in una grande vasca situata nel retro della chiesa che sorgeva all'ingresso del Forte. Una morte senza onore, senza tombe, senza lapidi e senza ricordo, affinché non restassero tracce dei misfatti compiuti. Ancora oggi, entrando a Fenestrelle, su un muro è ancora visibile l'iscrizione: "Ognuno vale non in quanto è ma in quanto produce".(ricorda molto la scritta dei lager nazisti "
Non era più gradevole il campo impiantato nelle "lande di San Martino" presso Torino per la "rieducazione" dei militari sbandati, rieducazione che procedeva con metodi di inaudita crudeltà. Così, in questi luoghi terribili, i fratelli "liberati", maceri, cenciosi, affamati, affaticati, venivano rieducati e tormentati dai fratelli "liberatori".
Altre migliaia di "liberati" venivano confinati nelle isole, a Gorgonia, Capraia, Giglio, all'Elba, Ponza, in Sardegna, nella Maremma malarica. Tutte le atrocità che si susseguirono per anni sono documentate negli Atti Parlamentari, nelle relazioni delle Commissioni d'Inchiesta sul Brigantaggio, nei vari carteggi parlamentari dell'epoca e negli Archivi di Stato dei capoluoghi dove si svolsero i fatti.
Francesco Proto Carafa, duca di Maddaloni, sosteneva in Parlamento: "Ma che dico di un governo che strappa dal seno delle famiglie tanti vecchi generali, tanti onorati ufficiali solo per il sospetto che nutrissero amore per il loro Re sventurato, e rilegagli a vivere nelle fortezze di Alessandria ed in altre inospitali terre del Piemonte…Sono essi trattati peggio che i galeotti. Perché il governo piemontese abbia a spiegar loro tanto lusso di crudeltà? Perché abbia a torturare con la fame e con l'inerzia e la prigione uomini nati in Italia come noi?".

Ma della mozione presentata non fu autorizzata la pubblicazione negli Atti Parlamentari, vietandosene la discussione in aula [3]. Il generale Enrico Della Rocca, che condusse l'assedio di Gaeta, nella sua autobiografia riporta una lettera alla moglie, in cui dice: "Partiranno, soldati ed ufficiali, per Napoli e Torino...", precisando, a proposito della resa di Capua, "...le truppe furono avviate a piedi a Napoli per essere trasportate in uno dei porti di S.M. il Re di Sardegna. Erano 11.500 uomini" [4].

Alfredo Comandini, deputato mazziniano dell'età giolittiana, che compilò "L'Italia nei Cento Anni (1801-1900) del secolo XIX giorno per giorno illustrata", riporta un'incisione del 1861, ripresa da "Mondo Illustrato" di quell'anno, raffigurante dei soldati borbonici detenuti nel campo di concentramento di S. Maurizio, una località sita a 25 chilometri da Torino. Egli annota che, nel settembre del 1861, quando il campo fu visitato dai ministri Bastogi e Ricasoli, erano detenuti 3.000 soldati delle Due Sicilie e nel mese successivo erano arrivati a 12.447 uomini.

Il 18 ottobre 1861 alcuni prigionieri militari e civili capitolati a Gaeta e prigionieri a Ponza scrissero a Biagio Cognetti, direttore di "Stampa Meridionale", per denunciare lo stato di detenzione in cui versavano, in palese violazione della Capitolazione, che prevedeva il ritorno alle famiglie dei prigionieri dopo 15 giorni dalla caduta di Messina e Civitella del Tronto ed erano già trascorsi 8 mesi. Il 19 novembre 1861 il generale Manfredo Fanti inviava un dispaccio al Conte di Cavour chiedendo di noleggiare all'estero dei vapori per trasportare a Genova 40.000 prigionieri di guerra. Cavour così scriveva al luogotenente Farini due giorni dopo: "Ho pregato La Marmora di visitare lui stesso i prigionieri napoletani che sono a Milano", ammettendo, in tal modo, l'esistenza di un altro campo di prigionia situato nel capoluogo lombardo per ospitare soldati napoletani.

Questa la risposta del La Marmora: "…non ti devo lasciar ignorare che i prigionieri napoletani dimostrano un pessimo spirito. Su 1600 che si trovano a Milano non arriveranno a 100 quelli che acconsentono a prendere servizio. Sono tutti coperti di rogna e di verminia…e quel che è più dimostrano avversione a prendere da noi servizio. Jeri a taluni che con arroganza pretendevano aver il diritto di andare a casa perché non volevano prestare un nuovo giuramento, avendo giurato fedeltà a Francesco Secondo, gli rinfacciai altamente che per il loro Re erano scappati, e ora per la Patria comune, e per il Re eletto si rifiutavano a servire, che erano un branco di car…che avessimo trovato modo di metterli alla ragione". 

Le atrocità commesse dai Piemontesi si volsero anche contro i magistrati, i dipendenti pubblici e le classi colte, che resistettero passivamente con l'astensione ai suffragi elettorali e la diffusione ad ogni livello della stampa legittimista clandestina contro l'occupazione savoiarda. Particolarmente eloquente è anche un brano tratto da Civiltà Cattolica: "Per vincere la resistenza dei prigionieri di guerra, già trasportati in Piemonte e Lombardia, si ebbe ricorso ad un espediente crudele e disumano, che fa fremere. Quei meschinelli, appena coperti da cenci di tela, rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione con cattivo pane ed acqua ed una sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide casematte di Fenestrelle e d'altri luoghi posti nei più aspri luoghi delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in clima sì caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimare di fame e di stento per le ghiacciaie".

Ancora possiamo leggere dal diario del soldato borbonico Giuseppe Conforti, nato a Catanzaro il 14.3.1836 (abbreviato per amor di sintesi): "Nella mia uscita fu principio la guerra del 1860, dopo questa campagna che per aver tradimenti si sono perduto tutto e noi altri povere soldati manggiando erba dovettimo fuggire, aggiunti alla provincia della Basilicata sortí un prete nemico di Dio e del mondo con una porzione di quei giudei e ci voleva condicendo che meritavamo di essere uccisi per la federtà che avevamo portato allo notro patrone. Ci hanno portato innanzi a un carnefice Piemontesa condicendo perché aveva tardato tanto ad abbandonare quell'assassino di Borbone. Io li sono risposto che non poteva giammai abbandonarlo perché aveva giurato fedeltà a lui e lui mi à ditto che dovevo tornare indietro asservire sotto la Bandiera d' Italia. Il terzo giorno sono scappato, giunto a Girifarchio dove teneva mio fratello sacerdote vedendomi redutto a quello misero stato e dicendo mal del mio Re io li risposi che il mio Re no aveva colpa del nostri patimenti che sono stato le nostri soperiori traditori; siamo fatto questioni e lo sono lasciato"."Allo mio paese sono stato arrestato e dopo 7 mesi di scurre priggione mi anno fatto partire per il Piemonte. Il 15 gennaio del 1862 ci anno portato affare il giuramento, in quello stesso anno sono stato 3 volte all'ospidale e in pregiona a pane e accua. Principio del 1863 fuggito da sotto le armi di vittorio, il 24 sono giunto in Roma, il giorno 30 sono andato alludienza del mio desiderato e amato dal Re', Francesco 2 e li ò raccontato tutti i miei ragioni"[5].
Un ulteriore passo avanti nella studio di questa fase poco "chiara" del post unificazione è stato fatto recentemente, quando un ricercatore trovò dei documenti presso l'Archivio Storico del Ministero degli Esteri attestanti che, nel 1869, il governo italiano voleva acquistare un'isola dall'Argentina per relegarvi i soldati napoletani prigionieri, quindi dovevano essere ancora tanti [6]. 
Questi uomini del Sud finirono i loro giorni in terra straniera ed ostile, certamente con il commosso ricordo e la struggente nostalgia della Patria lontana. Molti di loro erano poco più che ragazzi [7].
Era la politica della criminalizzazione del dissenso, il rifiuto di ammettere l'esistenza di valori diversi dai propri, il rifiuto di negare ai "liberati" di credere ancora nei valori in cui avevano creduto. I combattenti delle Due Sicilie, i soldati dell'ex esercito borbonico ed i tanti civili detenuti nei "lager dei Savoia", uomini in gran parte anonimi per la pallida memoria che ne è giunta fino a noi, vissero un eroismo fatto di gesti concreti, ed in molti casi ordinari, a cui non è estraneo chiunque sia capace di adempiere fedelmente il proprio compito fino in fondo, sapendo opporsi ai tentativi sovvertitori, con la libertà interiore di chi non si lascia asservire dallo "spirito del tempo".
 
Il "lager" di Fenestrelle. La ciclopica sabauda cortina bastionata
 
lapide fenestrelle
Lapide affissa nel 2008 e successivamente ritrovata distrutta(leggi articolo di seguito)
 

“Tra il 1860 e il 1861 vennero segregati nella fortezza di Fenestrelle migliaia di soldati dell’esercito delle Due Sicilie che si erano rifiutati di rinnegare il re e l’antica patria. Pochi tornarono a casa. I più morirono di stenti. I pochi che sanno si inchinano”. Questo era il testo della lapide apposta nel 2008 a Fenestrelle dai Comitati delle Due Sicilie di Fiore Marro per ricordare i soldati delle Due Sicilie prigionieri dei Savoia morti in quella terribile fortezza diventata (giustamente e coerentemente con la sua terribile storia) il simbolo della tragedia vissuta da decine di migliaia di nostri soldati all’indomani dell’unificazione italiana. Lo storico medievista Alessandro Barbero è stato autore addirittura di un libro (al centro di numerose polemiche) per smentire quella lapide e gli studi che, dopo un secolo e mezzo di colpevole silenzio, avevano raccontato quelle storie scomode per chi è abituato alle solite storie “risorgimentali”. “Quasi tutto quello che venne detto in occasione di quella manifestazione -per lo storico piemontese- è menzogna e mistificazione così come menzognera è la lapide che incredibilmente l’amministrazione del forte ha consentito di esporre… un’invenzione storiografica e mediatica: tanto più ignobile in quanto rivolta ad un’opinione pubblica frustrata e incattivita”. Un linguaggio violento e non proprio consono ad un dibattito storiografico tuttora in corso: le ricerche di Barbero sono limitate per quantità e durata (esaminato il 2% circa del materiale documentario esistente sul tema e tra il 1860 e il 1862…) ed è necessario continuarle, come fu sottolineato anche nel corso di un acceso confronto da chi scrive. Un linguaggio violento e sostanzialmente anche immotivato: effettivamente furono segregati in quella fortezza migliaia di nostri soldati, effettivamente perché non vollero rinnegare re e patria, effettivamente in tanti morirono di stenti e in tantissimi non tornarono più a casa e, effettivamente, per oltre 150 anni, nessuno li aveva mai ricordati. Quali le “controindicazioni” di quella piccola lapide cristianamente rispettosa della nostra storia a fronte, tra l’altro, di migliaia di lapidi retoriche e bugiarde dedicate magari ai massacratori dei meridionali in giro per l’Italia? Quali le motivazioni per il suo spostamento dalla piazza ad una cella e da quella cella, in pezzi, in un contenitore di plastica? I cocci li hanno raccolti gli stessi Comitati durante la loro ultima manifestazione (già pronta, naturalmente, una nuova lapide… Nessun collegamento, è ovvio, tra le polemiche di Barbero e la cancellazione di quel pezzetto di memoria storica ma ci aspettiamo, dopo il silenzio in occasione delle recenti cenette a lume di candela (burlesque compreso) oggettivamente poco rispettoso della stessa tragica e secolare storia di quel luogo di sofferenza e morte, un suo intervento contro chi, effettivamente “frustrato e incattivito”, ha pensato di fermare la dilagante e sacrosanta opera di ricostruzione di verità storica e memoria avviata dagli antichi Popoli delle Due Sicilie ma senza riuscirci e, anzi, rafforzandone addirittura le motivazioni: le lapidi del cuore e dell'anima non si possono più cancellare. Gennaro De Crescenzo
Foto di Ferdinando Luisi

 
NOTE
 
[1] Legge Pica: 
" Art.1: Fino al 31 dicembre nelle province infestate dal brigantaggio, e che tali saranno dichiarate con decreto reale, i componenti comitiva, o banda armata composta almeno di tre persone, la quale vada scorrendo le pubbliche strade o le campagne per commettere crimini o delitti, ed i loro complici, saranno giudicati dai tribunali militari;
Art.2: I colpevoli del reato di brigantaggio, i quali armata mano oppongono resistenza alla forza pubblica, saranno puniti con la fucilazione;
Art.3: Sarà accordata a coloro che si sono già costituiti, o si costituiranno volontariamente nel termine di un mese dalla pubblicazione della presente legge, la diminuzione da uno a tre gradi di pena;
Art.4: Il Governo avrà inoltre facoltà di assegnare, per un tempo non maggiore di un anno, un domicilio coatto agli oziosi, ai vagabondi, alle persone sospette, secondo la designazione del Codice Penale, nonché ai manutengoli e camorristi;
Art.5: In aumento dell'articolo 95 del bilancio approvato per 1863 è aperto al Ministero dell'Interno il credito di un milione di lire per sopperire alle spese di repressione del brigantaggio. (Fonte: Atti parlamentari. Camera dei Deputati)
[2] Il luogo non era nuovo a situazioni del genere perché già Napoleone se ne era servito per detenervi i prigionieri politici ed un illustre napoletano, Don Vincenzo Baccher, il padre degli eroici fratelli realisti fucilati dalla Repubblica Partenopea il 13 giugno del 1799, che vi aveva passato 9 anni, dal 1806 al 1815, tornando a Napoli alla venerabile età di 82 anni. 
[3] Giovanni De Matteo, Brigantaggio e Risorgimento - legittimisti e briganti tra i Borbone ed i Savoia, Guida Editore, Napoli, 2000.
[4] Questa informazione e tutte le seguenti sono state reperite nei saggi "I campi di concentramento", di Francesco Maurizio Di Giovine, nella rivista L'Alfiere, Napoli, novembre 1993, pag. 11 e "A proposito del campo di concentramento di Fenestrelle", dello stesso autore, pubblicato su L'Alfiere, dicembre 2002, pag. 8.
[5] Fulvio Izzo, I Lager dei Savoia, Controcorrente, Napoli 1999.
[6] S. Grilli, Cayenna all'italiana, Il Giornale, 22 marzo 1997.
[7] Sul sito www.duesicilie.org/Caduti.html è possibile ritrovare i nomi, con data di nascita e provenienza di alcuni martiri di Fenestrelle, nel periodo compreso tra il 1860 ed il 1865. Erano poco più che ragazzi: il più giovane aveva 22 anni, il più vecchio 32.
Questa pagina (concessa solo a Cronologia)è stata offerta gratuitamente dal direttore di http://www.storiain.net
 
Questa Sezione in data odierna,4 gennaio 2013,si arricchisce di due nuovi contributi.Mi auguro che casualmente qualche abitante delle contrade settentrionali della penisola si imbatta in questo sito,così potrà apprendere i fatti accaduti,deformati dalla lente della disinformatia risorgimentale, che impregna di sè i libri,le enciclopedie,le trasmissioni televisive ricche di "esperti" e "professori" e "storici",e uomini politici a digiuno di cultura.
 

NON LASCERANNO AI MERIDIONALI NEMMENO GLI OCCHI PER PIANGERE

 

I Borbone avevano conservato il loro regno integro; i piemontesi, che avevano invaso un Regno senza dichiarazione di guerra, trovarono oro e denaro, saccheggiarono tutto quello che c’era da saccheggiare, massacrarono intere popolazioni, misero a ferro e fuoco il Sud per dieci anni, lo impoverirono, trasferendo tutte le sue ricchezze nel Piemonte. Francesco II, partendo da Gaeta il 14 febbraio 1861, disse al comandante Vincenzo Criscuolo: «Vincenzino, i napoletani non hanno voluto giudicarmi a ragion veduta; io però ho la coscienza di avere fatto sempre il mio dovere, Il Nord non lascerà ai meridionali neppure gli occhi per piangere”. Mai parole furono così vere!

 Sua Maestà il Re delle Due Sicilie,Francesco II di Borbone-Napoli,

qualche anno prima della morte


Dal 1860 al 1870 i piemontesi riuscirono a depredare tutto quello che c’era da prendere, svuotarono le casse dei comuni, quelle delle banche, quelle dei poveri contadini, quelle delle comunità religiose, dei conventi; saccheggiarono le chiese e le campagne; smontarono i macchinari delle fabbriche per montarli al nord; rubarono opere d’arte, quadri, statue


Le miniere di ferro, il laboratorio metallurgico della Mongiana in Calabria; le industrie tessili della Ciociaria; le manifatture di Terra di Lavoro; i tanti cantieri navali sparsi per tutto il Mezzogiorno; la magnifica fabbrica di Pietrarsa che dava con l’indotto lavoro a settemila persone; le scuole pubbliche e, soprattutto, la dignità e la libertà furono tolte ai Meridionali i quali, coraggiosamente, preferirono andare a morire partigiani sui monti dell’ Appennino, piuttosto che veder calpestato il suolo della patria napoletana dalle “orde di assassjnj e ladroni del nord”.


Erano così rapaci i fautori dell’Italia Unita che a Napoli furono trafugate anche le batterie della cucina dei palazzi reali. Presero la via di Torino anche due enormi mortai di bronzo cesellati, che stavano negli ospedali militari della Trinità e del Santo Sacramento, tali opere erano state create da Benvenuto Cellini


Tutto il Sud fu razziato e spogliato delle sue fabbriche e delle sue ricchezze: a guerra civile terminata, nel 1871, le più oneste e migliori menti della classe imprenditoriale, quel poco che restava di media borghesia oltre a una miriade di contadini e di operai del Sud, che fino al 1860 non avevano mai conosciuto l’emigrazione, furono costretti ad arricchire gli stati del continente americano.


Fino al 1860, il Regno delle Due Sicilie, ricco di pace, di memorie, di costumi, di commercio, di prosperità, di arti, di industrie, di pesca, di agricoltura, di artigianato, era l’invidia delle genti: scuole gratis, teatri, opere d’ingegneria, meravigliosi musei, strade ferrate, gas, opifici, opere di carità, bacini, cantieri navali, arsenali davano lavoro a tutto il popolo.


Non c’era disoccupazione, era il primo stato Sociale, il primo stato Illuminato del mondo.Dal 1860 al 1871 il Meridione divenne un inferno.


Secondo i dati del primo censimento dell’Italia unita (1861) risulta che su 668 milioni di lire incamerati nelle casse piemontesi, ben 443 appartenevano al Regno delle Due Sicilie.

NORD LADRO


Quando si parla d’industria, l’immaginario collettivo pensa al Nord, pensa al triangolo industriale Milano, Genova, Torino, come se il Padreterno avesse eletto i padani a condurre l’economia, come se i meridionali fossero incapaci di produrre beni, ma solo in grado di consumare ricchezza.


Leggendo le statistiche del primo censimento dell’unità d’Italia, ci accorgiamo che gli addetti nell’industria.


Questi sono dati forniti dal governo piemontese nel 1861 e quindi inconfutabili. 1.595.359 addetti nell’industria del Regno Borbonicocontro 1.170.859 addetti del resto d’Italia.

 

La Campania nel 1860 era tra le regioni più industrializzata del mondo ed oggi, dopo 150 anni di potere liberal massonico, è definita terra di camorra.


Oggi è sotto gli occhi di tutti la voragine debitoria di questo Stato!


Nel 1860 scannarono il Sud e il Sud ha pagato un prezzo enorme alla causa unitaria: quasi un milione di morti, tra fucilati, incarcerati, impazziti, un decimo della popolazione, 20 milioni di emigranti; la spoliazione delle terre demaniali e dei beni ecclesiastici, tutti i risparmi dei Meridionali rapinati.

 

I pennivendoli di regime continuano a scrivere libri di storia menzogneri sull’Unità d’Italia, danno al Sud colpe tremende di parassitismo; continuano a chiamare “borbonica” la cattiva amministrazione e la burocrazia di stampo piemontese e, soprattutto, sono riusciti ad inculcare nell’immaginario collettivo, senza spiegarne le cause, bombardando continuamente le menti ormai fiaccate della gente, che Sud vuol dire mafia, vuol dire camorra, vuol dire ‘ndrangheta, vuol dire far niente, vuol dire assistito.


Ecco, questi pennivendoli sperano di mettere un velo sull’intelligenza umana, di far dimenticare a qualcuno le miserie del Nord, gli eccidi perpetrati dagli invasori piemontesi, le prepotenze dei liberalmassoni di ieri e di oggi e soprattutto vorrebbero farci dimenticare che il Sud era ricco.


tratto dal sito:


http://www.veja.it/?/archives/2006/11/22_html&paged=38autore Antonio Ciano

Briganti 


Brigantaggio una guerra sporca nata dal giogo dei Savoia sul sud

RISORGIMENTO. L’ALTRA VERITA’

Dopo la cacciata dei Borboni dalle Due Sicilie, il nuovo Governo piemontese riuscì a rendersi cosi impopolare da scatenare un’insurrezione di popolo in piena regola:si formarono 400 bande agguerrite, con oltre 80mila  combattenti e almeno altrettanti impiegati nei “servizi ausiliari

I nuovi dominatori colpirono i patrimoni delle famiglie con sistematica rapacità per ricavare denaro ovunque.Qualche volta trascurarono  i potenti,specialmente se erano amici politici,ma non rinunciarono a guadagnare sulle  piccole proprietà e  si accanirono sulle minuscole

Quando sembrava che la guerra del Risorgimento fosse finita,ne cominciò un’altra che mise a dura prova l’esercito della nuova Italia.

Da Calatafimi al Volturno  le battaglie non erano state granché, soprattutto perché gli ufficiali borbonici ordinavano di ritirarsi quando sarebbe stato il momento di attaccare. Ma quando tutti pensavano a riporre le armi per gestire gli affari con più tranquillità, le campagne cominciarono a rivoltarsi.Cafoni e contadini inneggiavano al re “Franceschiello” ma,in realtà,si dichiaravano per il passato regime soltanto per sottolineare che con il nuovo non volevano avere niente a che vedere.

UNO SCONTRO SENZA TREGUA

Lo scontro tra soldati regolari dell’esercito italiano e guerriglieri meridionali fu senza esclusione di colpi e senza tentennamenti. In dieci anni (dalla proclamazione del Regno d’Italia alla conquista di Roma del 1870)i morti si accatastarono a migliaia e le nefandezze – senza distinzione  fra regolari e partigiani – furono di tale portata da far rabbrividire.

«Cari sudditi, non vi  lasceranno neanche gli occhi per piangere ».

Francesco II,in un anelito di compassione,l’aveva scritto al momento di lasciare il suo regno. Era una previsione quasi ovvia.Qualcuno era già piegato sotto il tallone del conquistatore.Dopo la guerra “ufficiale” – si fa per dire – con scontri  “regolari” tra borbonici e garibaldini,ne era cominciata un’altra più nascosta,ma violenta e senza esclusione di colpi.

Nelle campagne,sulle montagne,attorno alle città,la gente si ribellava ai nuovi padroni.Li avevano sentiti,quando si presentavano come i campioni della libertà, proponevano la fine delle ingiustizie e quando promettevano di dividere i feudi per assegnare un pezzetto di orto ai contadini.Ma poi,ancora provvisoriamente insediati, si accorsero che imponevano incomprensibili ordinamenti,che applicavano leggi importate direttamente da Torino e, soprattutto,che promuovevano una quantità di nuove tasse,

IL PREZZO DELLA CONQUISTA

Il prezzo della guerra che il nord aveva unilateralmente dichiarato bisognava pur pagarlo e il conto toccava per intero al sud. Senza curarsi di quel  “comune sentire” cui attribuivano – sembrava – enorme importanza,fin tanto che si trattava di chiacchiere. Senza nemmeno provare a realizzare  quel buon governo per il quale avevano speso tanti proclami.

I “nordisti” introdussero per  esempio la tassa di successione:«Così i pupilli perdono ciò che il genitore,con sacrificio e privazioni, aveva creato per il loro decoro»

Colpirono i patrimoni  delle famiglie con sistematica rapacità  per ricavare denaro ovunque. Qualche volta trascurarono i potenti, specialmente se amici,ma non rinunciarono a guadagnare sulle piccole proprietà e si accanirono sulle minuscole.

Introdussero,per esempio,l’imposta sulla successione che,di per se,è un’assurdità.Perché pagare per conservare ciò che è già tuo?

Un padre muore  e la  tenera famiglia resta.Ma un ricevitore, con il feretro ancora caldo,si presenta imperterrito,rovista la casa,penetra i segreti,fa l’inventario,somma il valore dell’eredità,calcola il diritto del fisco ch’egli rappresenta e i lacrimanti figli con la derelitta vedova pagano una somma gravissima. E i pupilli perdono ciò che il genitore,con sacrificio e privazioni, aveva creato per il loro decoro.  Lo scrisse un nordista con accenti che parrebbero compassionevoli:il conte Alessandro Bianco de Jorioz.

Peccato che la sua riflessione sia maturata troppo in là negli armi, nel 1876, al momento in cui tutto era irrimediabilmente finito, e il Sud era già diventato “la questione meridionale”.Prima, quando faceva par te del corpo dello Stato Maggiore dell’esercito, con qualche possibilità di farsi sentire e mitigare – se non proprio correggere – quegli atteggiamenti repressivi, lasciò che la burocrazia facesse il suo corso.

Si domandava Bianco de Jurioz: «Perche quella famiglia, rovinata negli affètti e depredata nel patrimonio,avrebbe dovuto essere grata al Savoia che aveva scacciato il Borbone?».

Già…perché? E,infatti,quelle famiglie – altro che grate – consideravano il nuovo regime come un pericolo da cui difendersi.

In fondo,la questione “tassa – di – successione- sì o tassa – di – successione – no” che ha infiammato il dibattito politico di queste ultime legislature – dal 1995 ai giorni nostri – con Berlusconi che ha tolto l’imposta e Prodi che ce l’ha rimessa con la conseguenza che Berlusconi l’ha rilevata,affonda le sue radici nelle disposizioni prese in seguito alla conquista del Sud.

PIEMONTESI CRUDELI E INEFFICIENTI

Dal 1861,le leggi erano orrende ma diventavano atroci per colpa di coloro che le applicavano. I liberatori si rivelarono, al tempo stesso, avidi e insensibili, crudeli e incapaci.

Secondo Dennis Mack Smith,i politicanti del Nord non avevano che da ringraziare se stessi per l’impopolarità che ben presto si guadagnarono.

Lacaita dalle Puglie scrisse al Presidente del Consiglio Cavour per informarlo che «i fautori dell’Unità d’Italia e del partito dell’annessione erano in netta minoranza».  E, ancora Mack Smith:«L’incursione del Nord  sembrava una nuova invasione barbarica e l’avversione al Piemonte ricordava l’antipatia  cui molti tedeschi del Sud guardavano ai Prussiani del Nord».

La nuova classe politica non aveva nessuna esperienza amministrativa e nessuna conoscenza del Meridione per cui i meriti patriottici – spesso presunti – furono considerati sostitutivi dell’abilità nella gestione delle questioni burocratiche.  Parola di  Pasquale Villari: «Le varie oligarchie regionali furono sostituite da famiglie rivali che erano state più rapide a cambiar casacca. Questo spiega perché insieme a una quantità di avventurieri e disonesti, un numero spaventoso di imbecilli abbia invaso le nuove province del Regno».

Dopo l’attacco di Garibaldi alle difese belliche  di Francesco II  ci fu un secondo assalto della democrazia  piemontese  agli  uffici pubblici.Gli invasori occuparono tutto quello che materialmente era possibile occupare, confiscarono lo Stato e poi lo trattennero come se fosse diventato “cosa loro”.Un volonteroso capitano di Torino diventò un generale pedante a Reggio Calabria.Un discreto maestro settentrionale si trasformò in un pessimo direttore didattico in una circoscrizione del Sud.Un giudice coscienzioso della capitale sabauda si trasformò in un arrogante procuratore di una regione  meridionale.  Il capo sezione divenne capo ripartizione e il capo divisione diventò prefetto.

PROMOZIONI POLITICHE

Ferrari,colonnello di Stato Maggiore, era cuciniere del duca di Modena. Il generale Pietro Fumel era un doganiere.Il colonnello Cattabenaaveva fatto fortuna come tenutario di una casa da gioco.E un cassiere della spedizione dei Mille.Agostino Bertani da sottufficiale addetto ai  servizi  sanità,si ritrovò colonnello:quando doveva  lavorare  per vivere chiedeva  il compenso di una lira e mezza per ogni visita medica ma, un anno dopo, era nelle condizioni di vivere di rendita con una fortuna stimata in 14 milioni di lire.

Ognuno venne sbalzato dalla piccola barca del tranquillo e ordinato Piemonte sulla grande nave Italia che, per di più, si trovava a manovrare in cattive acque.

Il Piemonte peggiorò se stesso e trascinò nel baratro l’Italia.

La legge della prevalenza dello stupido trovò   un’occasione per essere applicata su larga scala.

Coinvolgere nel Governo i “terroni”? Erano considerati persone con due facce,inaffidabili,con una coscienza approssimativa e con nostalgie borboniche appena chetate, ma sempre pronte a risvegliarsi.

In Piemonte erano tutti “nuovi” e raccomandabili per cui ogni incarico venne distribuito fra Torino e dintorni.

Il duca di Maddaloni,nel 1861,si lamentò con passione:«Ai mercanti piemontesi si danno le forniture  più lucrose.I  burocrati del Nord occupano quasi tutti i posti pubblici,gente spesso ben più corrotta degli antichi burocrati napoletani.A fabbricare le ferrovie si mandano operai piemontesi i quali,oltraggiosamente,pagansi il doppio dei napoletani.A facchini di dogana, a carcerieri,a birri vengono uomini dal Piemonte e donne piemontesi si prendono a nutrici all’ ospizio quasi che neppure il latte di questo popolo sia salutevole.È unione questa?».

SEMPRE PIÙ POVERI

Degli invasori, i nuovi padroni ebbero gli atteggiamenti, la iattanza, il disprezzo e la supponenza. I ricchi furono nelle condizioni di aumentare le loro ricchezze e i poveri – se possibile – si ritrovarono più poveri.

La grande speranza stava partorendo il topolino.  Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa insinuava come fosse stata immaginata una grande rivoluzione «per lasciare tutto come prima». In realtà: peggio di prima.

«Questo popolo del Sud, nel 1859, era vestito,calzato,industre,con riserve economieche».La penna del conte de Jurioz non era affatto indulgente nei confronti dei meridionali che considerava «nati in Italia ma appartenenti alle tribù dell’Africa come i Noveri,i Dinkas o ai Malesi di Pulo-Penango» .Per questo,le sue osservazioni hanno maggiore valore.«Il contadino possedeva una moneta:comprava e vendeva animali,corrispondeva gli affitti, alimentava la famiglia,viveva contento del proprio stato materiale».Dati alla mano.«Le civaie (leguminose) furono trovate al prezzo di 2.80 ma nel 1863 erano già salite a 5.20. La carne di bue vendevasi a 15 grana il rotolo e nel 1863 a grana 36.Una  gallina salì da 20 a 55 grana».

Il Governo appena instaurato non si curò dell’economia, non promosse l’industria, non favorì l’agricoltura e non procurò lavoro. Per l’immediato dispose lo stato d’assedio per assicurarsi obbedienza sollecita.Ed era bene che la felicità fosse anche esteticamente visibile.Occorreva celebrare messa per il nuovo Re,cantargli il Te Deum e tributargli onori e riconoscimenti.

Per chi si opponeva: la galera…e chi protestava più vivacemente(o, soltanto, sembrava averne voglia)finiva direttamente davanti al plotone d’esecuzione.

ESECUZIONI ARBITRARIE

Non c’era il tempo per sottilizzare. Le condanne  potevano essere decretate ed eseguite anche solo perché il comandante,quella mattina,era di cattivo umore.L’arbitrio governativo era diventato una regola neanche si trattasse di governare quelle regioni con il criterio dei satrapi orientali.Per le bizze di alcuni funzionari, talvolta meschini,venivano arrestate madri,mogli, sorelle di ogni presunto responsabile di qualche reato «e su di  esse si sfrenava la libidine».

Il capitano medico Antonio Rastelli bruciò con un ferro rovente un sordomuto di vent’anni, Antonio Cappello,perché credeva che facesse finta di non sentire.Ripeté la tortura 154 volte, come testimoniarono altrettante bruciature sul corpo di quel poveretto.I familiari protestarono e fecero ricorso al tribunale ma non ci furono conseguenze perché il giudice sentenziò che l’ufficiale aveva agito in buona fede.L’anno dopo, venne insignito della croce di san Maurizio e Lazzaro.La gente si nascose nei boschi  e si difese cori le armi.Scelsero la macchia alcuni vecchi garibaldini che avevano tifato sinceramente per l’Italia dei Savoia ma che dovettero verificare quanta distanza corresse fra le aspirazioni ideali e il risultato pratico.Li seguirono alcune migliaia  di reduci dell’esercito borbonico  che si trovarono senza lavoro.Si diedero alla guerriglia alcuni nobili legittimisti che vagheggiavano il  ritorno di Francesco II.E poi: contrabbandieri,furfanti,autentici criminali,gente in cerca di avventure,farabutti che,in qualunque tempo e con qualunque regime,avrebbero sparato per uccidere e ucciso per rapinare.

Alcuni erano di poche parole,altri invece erano capaci di improvvisare discorsi anche trascinanti.Qualcuno era vanitoso e cercava i giornalisti stranieri perché pubblicassero dei reportage su di lui.Qualcun altro viveva più defilato e non sopportava nemmeno di essere guardato con troppa insistenza.

In quell’accozzaglia di gente male in arnese,si trovarono i fanfaroni,e i romantici,gli ambiziosi che vestivano come ufficiali di immaginari eserciti e i pittoreschi,che portavano cappelli grondanti nastri e piazzi.

GLI  IDEALISTI E  I  RUBAGALLINE

C’erano gli idealisti e i rubagalline, coloro che – come Domenico Triburzi – davano un senso cavalleresco alla battaglia e rispettavano i nemici o altri come Gaetano Colletta Mammone, che al contrario,inventavano sadiche torture per spaventarli.

Ebbero un momento di fama Giosafatte Tallarico nelle Puglie,Pietro Corea nella zona di Catanzaro e Gioria La Gala nella provincia di Avellino.A Potenza dominava “il generalissimo” Carmine Donatelli Crocco e il suo gregario Giuseppe Nicola Summa “Ninco-Nanco”.

La gente conosceva i briganti attraverso i nomignoli che si erano dati: Diavolicchio,Caprariello,Pelorosso,Cavalcante,Coppolone.

Addirittura:Cappuccino ,Chiavone e Culopizzuto.Arrotolata sulla  pancia portavano un’ampia cinta di stoffa, zeppa di pistole e coltellcci,come i Pancho Villa che si sono visti nei  film delle rivoluzioni messicane.

Allora il conte di Cavour  sentenziò:«Lo scopo è chiaro:imporre l’unità con la forza fisica,ove non bastasse la forza morale»

Tutti  erano religiosi fino alla superstizione.Tenevano sul petto l’immagine del loro santo che doveva risparmiarli dalle  schioppettate e,agIi incroci delle strade di campagna,si fermavano a baciare i piedi di tutte le statue di Cristo in croce che incontravano.Invece di comprendere le ragioni del malcontento, i padroni del tricolore inasprirono le sanzioni  e la repressione diventò violenta con la “legge Pica ” che poteva essere considerata una  specie di licenza di uccidere.

Il conte di Cavour,dall’alto del suo seggio di Torino,indicò procedure e obiettivo:«Lo scopo è chiaro:imporre l’unità d’Italia alla parte più corrotta.Sui mezzi non vi è  gran dubbiezza:la forza morale e, se questa non bastasse, la fisica».Della forza morale non fu possibile scorgere traccia.Le baionette,invece,si rivelarono appuntite e affilate a misura.

L’ ARTE DEL BOIA

De  Sivo commentò: «Cominciava l’arte del boia». I piemontesi instaurarono il codice militare di guerra con corti marziali  e fucilazioni non soltanto con chi “utilizzava” le armi contro i militari dei Savoia.La legge consentì punizioni esemplari anche nei confronti di coloro che genericamente “venivano sorpresi” con un’arma di qualsiasi genere.Significava che ogni contadino poteva essere ammazzato perché ognuno di  loro possedeva un  fucile “a trombone” per difendersi dalle fiere e almeno un’accetta per tagliare la legna da ardere.

Il generale Pinelli estese la pena di morte «a  chi avesse  con parole o con denaro o con altri mezzi,eccitato i villici a insorgere» nonché a «coloro che  con parole o atti insultassero lo stemma dei Savoia,il ritratto del Re o la bandiera nazionale».

Inventarono le  figure dei  “pentiti”  che  accettavano di  abbandonare la banda di cui avevano fatto parte collaborando con le autorità per sgominare i vecchi compari.Nei loro confronti – era stabilito - sarebbero state applicate con manica larga tutte le attenuanti possibili e immaginabili,in modo da evitare loro il carcere. Coloro che mettevano l’esercito in condizione di acchiappare qualche brigante sarebbero  stati  ricompensati con premi in denaro.

Anche il poeta Dragonetti, patriota della prima  ora   e quindi non sospetto di nostalgia  non volle sottrarsi a un commento critico:«Con la legge Pica  le vendette non ebbero migliore opportunità di libero sfogo».Bastava poco per finire nella lista dei proscritti e candidarsi al plotone d’esecuzione.Rischioso avere un credito nei confronti di persone con il pelo sullo stomaco;pericoloso essere il  marito di una donna troppo bella e appetita da chi non si faceva scrupolo. Una lettera  anonima e i gendarmi che correvano per arrestarli cancellavano il debito e il rivale in amore.

La rudezza disumana  dei conquistatori finì per accrescere il senso di ostilità delle popolazioni locali.Di conseguenza,aumentò la durezza della repressione.II numero  degli sbandati crebbe proporzionalmente agli abusi.

I NUMERI DEI RESISTENTI

I fuorilegge  riuscirono a costruire 400 bande agguerrite.Con calcolo meticoloso,Tarquinio Maiorino  ha potuto stabilire che arrivarono a contare 80.702 combattenti.

Almeno altrettanti coloro che facevano parte dei cosiddetti servizi ausiliari:infermieri, informatori,porta ordini,vivandieri,conviventi,familiari e amanti.I briganti godevano di solidarietà diffusa fra la gente e,quando entravano nei paesi,era festa grande.

Risultò che,da settembre 1860 ad agosto 1861,vi furono 8.968  fucilati,10.604 feriti e 6.112 prigionieri.Le case distrutte furono 918

Molti vennero uccisi.Dalle zone di guerriglia pochi riuscirono ad arrivare al carcere.La stragrande maggioranza veniva sterminata sul posto senza troppi complimenti.Quanti?  Michele Topa cita i giornali stranieri che,in quegli stessi anni,tentarono un bilancio di questa guerra nascosta,non dichiarata eppure sanguinosissima.Risultò  che,dal settembre 1860 all’agosto 1861,poco meno di un anno solare,vi furono 8.968 fucilati,10.604 feriti e 6.112 prigionieri.Vennero uccisi 64 sacerdoti e 22 frati, 60 giovani sotto i 12 anni e 50 donne.Le case distrutte furono 918,molti i paesi cancellati dalla carta geografica.

UNA MARZABOTTO DELL’OTTOCENTO

Per esempio, con il ferro e con il fuoco distrussero Pontelandolfo e Casalduni.Nei ranghi dei reparti che si lanciarono all’assalto  insieme ad altri  900 soldati,c’era anche un bersagliere di Delebio Valtellina,Carlo Margolfi ,che confidò al suo diario emozioni e ricordi. Il  4 agosto 1861,fu mandato a sedare i disordini esplosi nella provincia di Benevento.I ribelli filo borbonici Cosimo Giordano e Donato Scurignano si erano imbattuti in un distaccamento di fanti in marcia e li avevano sterminati.I cadaveri erano stati straziati, pezzi di corpi martoriati erano stati trascinati per la campagna,teste mozzate erano finite sulle picche e portate in giro in una macabra processione.L’aver calpestato le croci sabaude e innalzato le bandiere gigliate era il minimo.Lo Stato Maggiore non poteva lasciare correre e pretese una punizione esemplare.

«Riceviamo l’ordine di entrare  in Pontelandolfo,fucilare gli abitanti,meno i figli,le donne e gli infermi e incendiarlo.Difatti un po’ prima di arrivare al paese, incontrammo i briganti che attaccammo e  che, in breve,facemmo correre davanti a noi».I comandanti, invece di inseguire le bande armate,preferirono sfogare la rabbia contro chi era rimasto chiuso in casa sua: dunque rinunciarono a punire i colpevoli e se la presero con chi,certamente,non aveva responsabilità.

«Entrammo nel paese e subito cominciammo a fucilare i preti e gli uomini.Indi il soldato saccheggiava. E, infine,abbiamo dato incendio».

Fu una specie di Marzabotto dell’Ottocento.

Il  diario di Carlo Margolfi lascia intendere che i soldati eseguirono l’ordine senza entusiasmo. «Quale desolazione!Non si poteva stare lì intorno per il gran calore.E quale rumore facevano quei poveri diavoli che,per sorte,avevano da morire abbrustoliti sotto le rovine delle loro case. Noi,invece,durante l’incendio avevamo di tutto:pollastri,conigli,vino,formaggi e pane».

Forse esagerano gli storici che, leggendo il Risorgimento  in chiave borbonica, sostengono che il Meridione pagò l’unità d’Italia con 700mila vittime.E probabilmente è un impeto di polemica quello che porta Antonio Ciano a ipotizzare un milione di morti.Ma,certo la parola “massacro” non è  nè gratuita nè esagerata.

Di questo bagno di sangue il Nord Europa non volle sapere.Napoleone III ,informato evidentemente per sommi capi di quanto stava accadendo,commentò:«Nemmeno i Borbone potevano fare peggio».Ma,forse per evitare complicazioni diplomatiche,non ritenne di intervenire.

Il deputato Mancini, dovendone discutere in Parlamento, se la cavò con un tartufesco: «Preferisco non fare rilevazioni di cui l’Europa potrebbe inorridire».Dichiarazione,nel contempo,seria e ipocrita perché conteneva gli estremi di  una denuncia  anche grave e,  tuttavia,inutile perché senza riferimenti specifici non poteva produrre alcun risultato.Anche allora – guarda un po’ come le questioni sono sempre le stesse – si trattava di fare bella figura in Europa!

UNA FEROCE DITTATURA

Dieci anni di scontri vennero nascosti o minimizzati all’opinione pubblica.I giornali erano pochi, compiacenti con il Governo e,contemporaneamente,disinteressati di quanto accadeva dal Tevere in giù.

Antonio Gramsci, fondatore del Partito Comunista italiano, non ebbe difficoltà a dichiarare che «lo Stato italiano fu  una feroce dittatura per l’Italia meridionale e le isole,crocifiggendo, squartando seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori sardi tentarono di infamare con il marchio dei briganti».Gramsci era cresciuto ad Ales,in Sardegna ma la sua famiglia era meridionale.Il padre,Giuseppe  era nato a Gaeta nel 1860.Proprio durante l’assedio alla fortezza e il nonno,Gennaro,che poteva fregiarsi del titolo di “don”,era stato capitano della gendarmeria  borbonica.Generali,Governo e Parlamento non dettero conto dei morti ammazzati fra gli avversari ma si preoccuparono anche di  non far sapere chi,fra i regolari,ci aveva lasciato la pelle.Certamente non pochi.Ma non è possibile stabilire quanti “piemontesi” furono uccisi perché nell’esercito,in  quegli anni,proprio per mascherare l’evidenza,si ricorse alla formula generica di  “deceduto  per ragioni di servizio”

Nessuna differenza nel modo di combattere. Insieme praticarono una violenza sfrenata, gareggiando in ferocia.Imboscate,agguati, tradimenti,c adaveri ammucchiati nei cortili. Vigliaccheria ed eroismo,duelli e massacri,violenza e crudeltà. I banditi con il vantaggio di conoscere i luoghi e la possibilità di scegliere quando attaccare.I soldati con una migliore organizzazione e con retrovie che assicuravano rifornimenti rapidi.

Soltanto alla fine,quando i vincitori scrissero la loro storia,si seppe da quale parte stavano i buoni e i giusti e da quale parte gli infami e i cattivi. Nel Meridione d’Italia i briganti persero e restarono briganti,mentre gli ufficiali dell’esercito ebbero l’opportunità di mostrare il  petto coperto di medaglie al valore.

I partigiani del Borbone,insieme a quelli che li aiutavano o che,semplicemente,non erano palesemente ostili,furono fatti a pezzi come non avrebbero osato nemmeno le truppe di occupazione più inumane.Li impiccarono  e lasciarono i loro corpi a penzolare dai pennoni. Portarono in giro i cadaveri per paesi e contrade. Obbligando la gente a vedere con i propri occhi come venivano trattati i nemici dei Savoia.Alcuni furono inchiodati ai portali dei palazzi.  Ad altri mozzarono la testa che riposero in una cassettina, come quelle che si usavano per ricoverare gli uccellini,per mostrarla in giro ed esibirla come trofeo.

Le canzoni  popolari e i racconti dei bis-bisnonni registrarono ignomie e crudeltà orripilanti.

C’è più verità in una ballata di cantastorie che in una quantità di capitoli di storia compiacente.

(13 – Continua)

Fonte: srs di Lorenzo Del Bocca; da La Padania, sabato 31 ottobre 2009, pag. 14- 15 -16.

Vittorio Messori: occorre rivedere il Risorgimento “italiano”

di Antonio Cariola ~ settembre 30th, 2007 (da L'Opinione)

Le idee migliori sono proprietà di tutti.

Vittorio Messori, storico, intellettuale, giornalista e scrittore italiano nato a Sassuolo (Modena), [ma formatosi a Torino,n.d.r.], famoso per la sua eclatante conversione al Cristianesimo e per i suoi libri appassionanti sulla Fede e sulle questioni teologali, ogni tanto torna storico e denuncia nel suo “Le cose della Vita ” la scandalosa ignoranza storica sul periodo risorgimentale e la voluta negazione di eventi e primati che qui già altre volte abbiamo riportato.

Di seguito l’articolo con il pensiero di Messori.

“Borbonico”, si sa, è un termine ingiurioso: è sinonimo di oscurantismo, inefficienza, ottusità, malaffare. Questi significati sono recenti e sono propri solo della lingua italiana. In Spagna, ad esempio, la gente di ogni convinzione politica sembra soddisfatta del suo Juan Carlos, che è un re borbonico, discendente dalla antica, ramificata dinastia che prese origine da modesti feudatari del castello di Bourbon. Proprio in Francia, una delle glorie nazionali è un altro Borbone, quel Luigi XIV significativamente chiamato “il re Sole”; e sono in molti ancora a piangere la fine dell’ultimo della dinastia, Luigi XVI, il sovrano ghigliottinato, che, pure, ebbe il solo merito di riscattare con il dignitoso coraggio in morte le fiacchezze e gli errori della vita.

Se da noi – e da noi soltanto – “borbonico” suona male, il motivo va cercato nella propaganda risorgimentale che doveva giustificare l’aggressione contro il Regno delle Due Sicilie , retto appunto da un ramo dei Borbone, quello di Napoli. Sia l’ala “rivoluzionaria” (quella di Garibaldi e Mazzini), sia quella “moderata”, “liberale”, alla Cavour, alla d’Azeglio, per una volta unite, crearono attorno ai sovrani partenopei una delle numerose “leggende nere” che ancora infestano tanti manuali scolastici e che popolano l’immaginario popolare. Anche qui, la revisione storica è da tempo all’opera, ma i suoi risultati non sembrano essere giunti ai molti – anche giornalisti – che continuano a dire “borbonico”, così come scrivono scioccamente “medievale”, per sinonimo di barbarie.

Qualche tempo fa, uno studioso meridionale, Michele Topa, ha pubblicato sul quotidiano di Napoli, “Il Mattino”, una serie di articoli frutto di non conformistiche ricerche. Quei saggi sono stati raccolti in un grosso volume dal titolo “Così finirono i Borbone di Napoli”, pubblicato dall’editore Fiorentino. Lo storico articola la sua ricerca soprattutto attorno agli ultimi due re, quelli sui quali si è scatenata la campagna di diffamazione gestita dai Savoia, usurpatori del loro regno. Al centro del libro, dunque, Ferdinando II, re delle Due Sicilie dal 1830 al 1859 (vilipeso come “Re bomba”, a causa della sua corporatura vigorosa, secondo la leggenda ingiuriosa creata anche dalla massoneria inglese) e il figlio Francesco II, spodestato da garibaldini e sabaudi nel 1860, dopo un solo anno di regno e aggredito e diffamato anche per avere rifiutato – lui, cattolicissimo – l’offerta del Piemonte di spartirsi lo Stato Pontificio.

Non certo per pigrizia, ma perché non sapremmo dir meglio, riportiamo qui parte della recensione al volume di Michele Topa apparsa su un numero di questo giugno della “Civiltà Cattolica” (oggi, tutt’altro che “reazionaria”), a firma di padre S. Discepolo.

Ecco, dunque: «Molti manuali di storia presentano Ferdinando II come un mostro, un boia incoronato, un tiranno senza freni, alla testa di un governo che era la negazione di Dio. Queste falsità furono orchestrate e diffuse da inglesi e piemontesi con fini machiavellici; ma poi furono sconfessate dagli stessi autori. Gladstone ritrattò, affermando che le sue lettere erano false e calunniose, che era stato raggirato e che “aveva scritto senza vedere”. Settembrini, autore di un infame libretto, confessò che fu “arma di guerra”. Ferdinando II, in realtà, secondo lo storico, fu un re onesto, intelligente, capace, galantuomo, profondamente amante del suo popolo. Il regno fu caratterizzato da benessere, fioritura culturale, artistica, commerciale, agricola e industriale. Poche le tasse, la terza flotta mercantile d’Europa, una delle più forti monete, il debito pubblico inesistente, l’emigrazione sconosciuta. Il miracolo economico del Sud Italia fu elogiato nel Parlamento inglese da lord Peel. L’industria era all’avanguardia, con il complesso siderurgico di Pietrarsa, che riforniva buona parte d’Europa, e il cui fatturato era dieci volte rispetto all’Ansaldo di Sampierdarena. Oltre al primo bacino di carenaggio d’Europa, Napoli ebbe la prima ferrovia d’Italia. 120 chilometri raggiunsero presto i 200 ed erano già pronti i progetti per estendere la ferrovia in tutto il regno. I prodotti come la pasta e i guanti erano esportati in tutto il mondo. Prima del crollo, il Regno delle Due Sicilie aveva il doppio della moneta di tutti gli Stati della Penisola messi insieme. Sono significative alcune cifre del primo censimento del Regno d’Italia: nel Nord, per 13 milioni di cittadini, c’erano 7.087 medici; nel Sud, per 9 milioni di abitanti, i medici erano 9.390. Nelle province rette da Napoli gli occupati nell’industria erano 1.189.582. In Piemonte e Liguria 345.563. In Lombardia 465.003».

Continua la sua sintesi del libro di Michele Topa il recensore della “Civiltà Cattolica”: «Certo, c’era il rovescio della medaglia: un governo paternalistico, una polizia – nella bassa forza – corrotta, una forte censura. Erano però le caratteristiche dei governi del tempo ed erano avvertire solo dai ceti intellettuali. Ferdinando Il, se è attaccabile sul piano strettamente politico, non lo è su quello morale. Le repressioni del 1848, così enfatizzate, sono da considerarsi moderate in confronto con quelle di altri Stati o con il modo con il quale l’Inghilterra represse i moti coloniali. Ferdinando II graziò moltissime persone per i reati politici e di 42 condanne a morte non ne fu eseguita nessuna».

Se così stavano le cose (e dati, cifre, documenti, lo confermano sempre) come mai il crollo del Regno del Sud davanti all’aggressione garibaldina? Continuiamo, allora, a trascrivere: «Causa prima della fine fu la prematura morte di Ferdinando Il. Suo figlio Francesco II, mite, dolce, cavalleresco, mal consigliato e tradito dai suoi collaboratori comprati dall’oro piemontese, si trovò a combattere non solo contro Garibaldi, ma contro Vittorio Emanuele II (suo cugino), Cavour, la Francia, l’Inghilterra. Lo sbarco dei Mille avvenne sotto la protezione della flotta inglese e, nella decisiva battaglia di Milazzo, Garibaldi aveva sull’esercito napoletano la supremazia di 5 a 1. Il tradimento, la corruzione e l’inettitudine dei generali portarono Garibaldi a Napoli. Ma nella battaglia sul Volturno i napoletani ebbero la meglio, a Caiazzo i garibaldini furono sconfitti, a Capua travolti. Il mito dell’infallibilità di Garibaldi fu infranto, a stento riuscì a salvare la vita…».

Ci permettiamo, poi, di rimandare pure a quanto scrivevamo al proposito, in una raccolta precedente, sui tre milioni di franchi oro versati in segreto ai capi dei Mille per comprare la resa dei borbonici (cfr. Pensare la storia, p. 258s). Ma che avvenne dopo? Ecco: «A Napoli, bastarono 62 giorni di dittatura garibaldina per distruggere le floride finanze e l’economia del Paese, che crollò industrialmente. Il disavanzo napoletano alla fine del 1860 era già salito a 10 milioni di ducati, nel 1861 a 20 milioni. Ben presto gli abitanti del Regno toccarono con mano quanto più duro fosse il nuovo regime. Molti presero le armi e si diedero alla rivoluzione. Per domarli, dovette intervenire un esercito di 120.000 uomini…».

Adesso, siamo avvertiti: prima di ingiuriare qualcosa a qualcuno definendoli “borbonici”, conviene informarsi meglio…..

Finalmente!

Un piemontese che ragiona con il cervello, dati alla mano, senza piegarsi alla propaganda e alle ragioni della pseudostoria.

(Ovviamente nel 2014 un altro piemontese ha pubblicato un libro con il quale ci racconta tutta la verità, soltanto la verità, nient'altro che la verità, specialmente su Fenestrelle, rimettendo le cose a posto! Non lo menzioniamo, perchè volutamente lo ignoriamo con tutti i suoi libri e comparsate tv).

Dopo diversi anni ho rivisto queste note. Una grande amarezza, un infinito scoramento mi prendono e mi tengono immobile davanti al pc.

Ancora oggi si rinnova in me il dolore per questi tragici fatti, ai quali hanno preso parte tanti nostri connazionali inconsapevoli del male che andavano ad arrecare ai loro fratelli in nome di ideali fasulli, strumentalizzati da chi aveva tutto l'interesse a che le cose andassero per un certo verso.

Non potrò mai perdonare alla casa savoia (in minuscolo!) il male arrecato agli abitanti della Penisola italiana per asservirli ai loro sporchi giochi di potere. Altrettanto dicasi per i cosiddetti "patrioti", speso ciarlatani e gente senza arte nè parte, ai quali sono stati innalzati monumenti, dedicate strade, piazze, scuole! Qual è il risultato del loro pensiero e della loro azione "risorgimentale"? Il risultato è l'Italia che ci rtroviamo sotto gli occhi: prima un regno ridicolo, poi una dittatura ridicola, infine una repubblica delle banane. Mai, dico mai, influente sul piano internazionale, ma, soprattutto, incapace di creare all'interno condizioni di benessere e di sviluppo per i suoi cittadini, costretti sempre a confrontarsi con la povertà, la disoccupazione, la sottoccupazione, l'emigrazione all'estero. Vergogna, infinita vergogna per tutti coloro che dal 1860 ad oggi si sono occupati della cosa pubblica, a livello centrale e periferico!!!

 

 

 

 
 
 
 
 
 
 
"La guerra contro il brigantaggio, insorto contro lo Stato unitario, costò più morti di tutti quelli del Risorgimento. Abbiamo sempre vissuto su dei falsi: il falso del Risorgimento che assomiglia ben poco a quello che ci fanno studiare a scuola!"
Indro Montanelli

"Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d'infamare col marchio di briganti". 
Antonio Gramsci

"Come ha potuto solo per un momento uno spirito fine come il tuo credere che noi vogliamo che il Re di Napoli conceda la Costituzione. Quello che noi vogliamo e che faremo è impadronirci dei suoi Stati"
Camillo Benso conte di Cavour (lettera a Ruggero Gabaleone di Salmour,politico e diplomatico piemontese) "Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale, temendo di esser preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio".
Giuseppe Garibaldi
 
 
Anche il Risorgimento andrebbe rivisitato
Molto chiara e illuminante la risposta data dal giornalista, storico e scrittore Paolo Granzotto a un suo lettore:

La pagina più nera della storia d'Italia e ancora coperta dal segreto militare a distanza di 140 anni dagli avvenimenti. Nonostante il Risorgimento stia lentamente subendo un processo di rivisitazione in chiave neoborbonica, grazie all'impegno di alcuni storici coraggiosi, che lavorano in contrasto all'ortodossia accademica, a Roma, presso lo Stato Maggiore dell'Esercito, si conservano, inaccessibili agli studiosi, 150.000 pagine che contengono la verità sull'insurrezione meridionale contro i piemontesi. Quel controverso periodo capziosamente definito brigantaggio.

I documenti che potrebbero finalmente fare luce sulla distruzione di interi paesi, sulla deportazione dei suoi abitanti e sulla fucilazione di migliaia di meridionali subiscono ancora «Il complesso La Marmora», dal nome del generale che diresse per anni la repressione nel Mezzogiorno, prima di divenire capo del governo.

Achille Della Ragione, Napoli


Lei fa bene a prendersela, caro Della Ragione, ma badi che gli archivi non potrebbero altro che confermare quello che già si sa, si sapeva e si è sempre taciuto. Non la «rivisitazione», ma la «visitazione» storica sull'annessione del Regno delle Due Sicilie (che non è necessariamente filoborbonica: lo diventa per contrasto alle menzogne antiborboniche della storiografia risorgimentalmente corretta) può contare su una buona mole di documenti, di relazioni, di diari e perfino di materiale fotografico. A proposito sappia, caro Della Ragione, che presto uscirà in abbinato al Giornale una collana di libri (La biblioteca storica del Giornale) su vicende e personaggi di quel periodo. Cominciando con colui che fu all'origine di molte nostre avventure e disavventure: Napoleone. Certo, quello è un dente che ancora duole. Ancora si fa fatica non dico ad ammettere, ma solo a sospettare che i Savoia avallarono una guerra di conquista coloniale accompagnata da brutalità, soprusi ed efferatezze. Si preferisce continuare a credere che il Regno sia stato «liberato» e i sudditi dei Borbone volontariamente, entusiasticamente, si siano gettati nelle braccia dei piemontesi salvatori (salvo naturalmente pochi delinquenti, i «briganti», giustappunto). Sui Mille, su Garibaldi, sullo scappellamento (mai verificatosi) di Teano gli storici si dilungano, compiaciuti. Ma delle cannonate dell'esercito piemontese, cioè di un esercito che invase il Regno senza aver dichiarato guerra, zitti e mosca. Qualche riga su Gaeta che l'eroe Cialdini seppe da par suo costringere alla resa e che Persano, anticipando la vergogna di Lissa, cercò di espugnare dal mare, ma dovette filarsela -ovvero ritirarsi, ovvero fuggire- inseguito dai pernacchi che la guarnigione gli indirizzava dagli spalti. Per il resto, silenzio, anche su Civitella del Tronto, capitolata solo il 20 marzo del 1862. Finita, a viva forza, nel dimenticatoio Civitella s'è presa però una bella rivincita: la fortezza è infatti diventata meta di centinaia di migliaia di turisti desiderosi di toccar con mano, se così si può dire, la storia patria. Un successo che a qualcuno fa venire il mal di fegato, al Comune di Torino, per esempio.

Deve sapere, caro Della Ragione, che un paio di mesi fa i civitellesi si sono rispettosamente rivolti al sindaco Chiamparino per chiedere fossero loro restituite tre bocche da fuoco che i gloriosi piemontesi, una volta occupata Civitella, si portarono via quale trofei di guerra. Si tratta di due colubrine del Seicento e una bombarda, detta «la scornata», del 1741, particolarmente cara ai civitellesi perché, oltre a sparar palle sui piemontesi del generale Ferdinando Pinelli, le sparò anche sui soldati di Napoleone (gli stessi ai quali i «patrioti» giacobini napoletani, le Fonseche Pimentel eccetera, aprirono le porte non prima d'aver steso i tappeti rossi). Insomma, Civitella del Tronto cittadina tosta, è. E rivoleva i suoi cannoni. Ma la Torino sabauda glieli ha negati, consentendo solo un prestito della durata di un anno. Dopo di che dovranno tornare dove giacciono (probabilmente assieme ad altri trofei di guerra, come le teste mozze dei «briganti» chiuse in vasi pieni di formalina) da quasi centocinquant'anni: negli scantinati di qualche civico deposito torinese. Io sono uomo d'ordine e mai ho istigato alla sovversione. Ma invito i civitellesi a non restituire quei cannoni. Se li tengano. E se c'è da difenderli dai birri piemontesi; sappiano che mi offro volontario, pronto a salire sulle mura e a battagliare, ovviamente con le stesse armi che i lazzari di Gaeta opposero al grande ammiraglio Persano.(Paolo Granzotto)

(Tratto da: Il Giornale,20 agosto 2003)

«L’unico grande diplomatico del secolo XIX è stato Cavour e anche lui non ha pensato a tutto. Sì, egli è geniale, ha raggiunto il suo scopo, ha fatto l’unità d’Italia. Ma guardate più addentro, e cosa vedete? Per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, ma non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata ed esaurita (ma è stato proprio così?) ma che cosa è venuto al suo posto, per che cosa possiamo congratularci con l’Italia, che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del conte di Cavour? E’ sorto un piccolo regno di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, […] un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del suo essere regno di second’ordine. Ecco quel che ne è derivato, ecco la creazione del conte di Cavour!»
Fëdor Michajlovic’ Dostoevskij, Diario di uno scrittore, ed. it. a cura di Ettore Lo Gatto, Sansoni, Firenze 1981, 1877, Maggio-Giugno, capitolo secondo, pp. 925-926.

  

Le ferite del Risorgimento

Nel 1863 - è ben raccontato nel libro "La Rivoluzione italiana" di Patrick Keyes O'Clery, pubblicato anch'esso da Ares - il console inglese a Napoli, Bonham, denunciò le condizioni delle carceri partenopee ancor più atroci dopo l'arrivo dei piemontesi. E, dopo un dibattito parlamentare, l'Inghilterra spedì nell'Italia del Sud Lord Seymour e Sir Winston Barron che confermarono i termini della denuncia. In quello stesso anno, sempre nel Parlamento inglese, Disraeli disse: «Desidero sapere in base a quale principio ci occupiamo delle condizioni della Polonia e non ci è permesso di discutere su quelle del Meridione italiano. È vero che in un Paese gli insorti sono chiamati briganti e nell'altro patrioti, ma, al di là di ciò, non ho appreso da questo dibattito nessun'altra differenza». E, quando nel 1867 il generale pontificio Kanzler entrò a Monterotondo, dopo la battaglia di Mentana e la sconfitta di Garibaldi, un giornale di Londra registrò che gli abitanti lo avevano accolto come «un liberatore» anche perché «erano stati derubati di tutto dai garibaldini e le offese fatte alle loro donne li avevano particolarmente esasperati».
(Paolo Mieli - 08/03/2011.Fonte: Corriere della Sera )

 

150 righe sull'Unità d'Italia
"Le due Italie" è un buon incipit per raccontare il Risorgimento
17 Marzo 2011
 
Anno 1796. Un popolo diviso. Un colpo d’occhio dato con serenità intellettuale e lucidità mentale sulla storia d’Italia degli ultimi duecentoquindici anni nel suo insieme, non può non coglierne come filo conduttore la violenza, frutto della divisione ideologica che mette radice in un preciso momento della nostra storia. Basti per il momento, al fine di introdurre il discorso, ricordare un fatto evidente quanto dimenticato: noi siamo l’unico popolo al mondo – di sicuro almeno nel mondo occidentale – che negli ultimi due secoli ha subito tre guerre civili, fra le quali la più nota, quella tra fascisti e partigiani, è in realtà di gran lunga la meno cruenta delle tre. Ben più tragica fu la guerra civile precedente, dal 1860 al 1865, che vide da un lato italiani piemontesi e «piemontesizzati» al seguito di Casa Savoia, e dall’altro italiani che non furono d’accordo a farsi piemontesizzare.
Stiamo naturalmente parlando della guerra condotta dal neonato Stato italiano contro i ribelli borbonici del Meridione, noti con l’equivoco appellativo di «briganti». Tratteremo in seguito tale triste pagina della nostra storia. Altrettanto tragica – soprattutto dal punto di vista ideologico – era stata la prima delle guerre civili, quella fra giacobini e insorgenti ai tempi dell’invasione napoleonica. Per iniziare a fornire una prima immediata spiegazione di tale fatto, occorre tener presente che c’è un anno fatidico nella storia degli italiani, una data di cui nessuno o quasi sa nulla, che mai si ricorda, e che invece svolge un ruolo d’importanza capitale, molto più del 1848, del 1861, del 20 settembre 1870, del 1915-’18, del 1922, anche dell’8 settembre ’43, e poi del ’45, del 2 giugno ’46, del 18 aprile ’48, e così via. È l’anno 1796. Come detto, questa data non dice nulla a nessuno, e anche il lettore forse sarà perplesso. Eppure è così. Il 1796 sta all’Italia come il 1789 sta alla Francia.
La differenza si situa in questo: che i francesi esaltano (o – pochi – condannano) in tutti i modi e in ogni momento il loro 1789; noi italiani abbiamo invece perduto la memoria di quell’anno, ricordato solo dagli esperti in materia nei loro libri e nei loro disertati convegni. Che cosa è accaduto di tanto importante nel 1796? È l’anno dell’invasione napoleonica, l’anno dell’importazione nella Penisola della Rivoluzione francese, imposta con le baionette, i cannoni, le stragi, i furti e profanazioni di un esercito invasore. È l’anno della nascita delle repubbliche giacobine e democratiche, sorte sulle spoglie degli antichi tradizionali Stati monarchici o aristocratici, comunque cristiani, della formazione di una aperta e perseguita coscienza rivoluzionaria, laica e repubblicana, nelle elités del nostro Paese. Ma è anche l’anno, d’altro canto, dell’inizio dell’Insorgenza controrivoluzionaria, vale a dire del più grande, drammatico ed eroico (e ancor oggi poco conosciuto) evento della storia degli italiani. Talmente drammatico ed eroico che lo si è cancellato dalla memoria collettiva, in quanto sgradito alla ideologia del Risorgimento; ed è per questo che nessuno coglie veramente fino in fondo l’importanza del 1796.
Il 1796 non è però solo tutto questo; è qualcosa in più. È l’inizio della «nuova storia» degli italiani116, è l’«anno del prima e del poi» (come François Furet, nella sua celebre Critica della Rivoluzione Francese, ha definito il 1789 per i francesi e per tutti gli occidentali) per noi italiani, lo spartiacque della nostra civiltà. È l’inizio della modernità in Italia. Prima di questa data l’Italia era una società cattolica (da due secoli di impronta controriformistica), i cui governi (monarchici o repubblicani che fossero) erano concepiti secondo un’idea sacrale e trifunzionale del potere; una società aristocratica e contadina, caratterizzata da un’organica armonia gerarchica (accettata serenamente anche dai ceti meno abbienti proprio per la sua connaturata struttura cristiana), che aveva prodotto una più che secolare concordia sociale117; né il riformismo illuminato e le idee anticristiane teorizzate nelle sempre più numerose e attive logge massoniche del XVIII secolo avevano influenzato minimamente le popolazioni, che, al
contrario, furono sempre ostili ai tentativi di sovversione dell’ordine cristiano. Ma con il 1796 ebbe inizio qualcosa di fondamentale importanza, un evento che ha mutato per sempre la storia e il modo di pensare degli italiani. Iniziò la «Rivoluzione italiana». Nel 1796 un uragano storico-politico-militare, nonché anche specificamente religioso, si abbatté sulla Penisola dopo secoli di pace, portando con sé una grave eredità: la divisione e l’odio ideologico. Il peso della modernità, come sempre.
È molto importante sottolineare questo aspetto: gli italiani erano in pace effettiva (tranne alcune zone settentrionali coinvolte loro malgrado nelle guerre delle grandi Potenze straniere ed eccetto rari momenti nel Meridione durante la guerre di successione) dai tempi delle guerre d’Italia, cioè da quasi tre secoli, e, soprattutto, erano idealmente uniti dal Medioevo; e, in ogni caso – a parte la divisione «guelfo-ghibellina», che comunque era viva anche al di fuori della Penisola e inoltre non implicava una reale spaccatura ideologica nel senso moderno e rivoluzionario del concetto, in quanto né i guelfi né i
ghibellini volevano sovvertire l’ordine costituito – essi erano uniti da sempre, nel senso che mai prima del 1796 avevano conosciuto l’odio della divisione ideologica, seppur divisi geopoliticamente: erano uniti nello spirito delle identità di vedute, credenze e tradizioni. Nemmeno la rivoluzione religiosa del XVI secolo li aveva divisi, considerato che la Penisola rimase sostanzialmente estranea al protestantesimo (a differenza, per esempio, della Francia, che, pur essendo ormai da tempo uno Stato unitario, conobbe le guerre civili di religione).
In quell’anno però giunse non richiesta la Rivoluzione francese, e con essa la guerra di un invasore ladro, prepotente e stragista. Soprattutto vi fu l’affermarsi della guerra fra gli italiani, la nascita dell’odio ideologico, vale a dire proprio ciò che gli italiani non avevano mai conosciuto prima. Dal 1796 non si è più «italiani» e null’altro: si è anche giacobini o insorgenti, massoni o cattolici, repubblicani o monarchici, «novatori» o «reazionari», democratici o conservatori, di «sinistra» o di «destra», «rivoluzionari» o «controrivoluzionari» ecc. È l’inizio della Rivoluzione italiana, e dunque l’inizio della divisione degli italiani: l’inizio della «guerra civile italiana».
Credo non si sia mai riflettuto abbastanza su quanto appena detto, che non si sia mai voluto realmente prendere coscienza del fatto che l’invasione napoleonica della Penisola abbia effettivamente cambiato (o meglio, iniziato a cambiare) per sempre l’identità stessa degli italiani, il loro Dna religioso, politico, sociale, anche istituzionale. Credo non si sia mai finora realmente compreso – almeno pubblicamente – quanto dagli eventi di fine Settecento e inizio Ottocento dipendano le drammatiche vicende della storia nazionale non solo del XIX secolo ovviamente (Risorgimento in primis), ma anche del XX secolo: solo per fare alcuni accenni evidentissimi, come negare che il giacobinismo abbia introdotto nella Penisola non solo lo spirito repubblicano, ma anche l’impronta laicista e anticattolica nonché la tendenza al totalitarismo? E, d’altra parte, suscitando la reazione degli insorgenti e del clero fedele a Roma, lo spirito antimoderno e tradizionalista di estesi ambienti del mondo cattolico? Come non vedere allora in tutto ciò le radici delle divisioni degli italiani negli ultimi due secoli?
Pochi italiani confluirono nelle file dei rivoluzionari, aderendo al giacobinismo e divenendo di fatto collaborazionisti dell’invasore. Erano pochi, ma «erano». Ed erano italiani, che scelsero di servire la Rivoluzione. Simultaneamente, di fronte a questa novità tanto inaspettata quanto grave e coinvolgente(monarchie abbattute, sovrani in fuga, Papi arrestati, chiese profanate e palazzi e musei svuotati, monti di pietà saccheggiati, repubbliche rivoluzionarie asservite all’invasore, fiscalismo depauperante, e via continuando), centinaia di migliaia di italiani si trovarono costretti – volenti o no – a compiere anch’essi la prima scelta fondamentale, e decisero di rimanere fedeli all’antica civiltà tradizionale, alla società cattolica e sacrale, ai loro legittimi governi, e presero le armi contro l’invasore e i democratici a esso asserviti. Questa fase durerà fino al 1799, e comunque sporadicamente fino alla caduta di Napoleone. Ma non finisce certo così.
È proprio negli anni della Restaurazione che, sulla base dell’esperienza napoleonica in Italia, si passa alla realizzazione del processo risorgimentale: da un lato vi era chi lo rifiutò, e fra costoro ci poteva essere diversità di vedute strategiche, di impostazione ideologica su punti dottrinali non chiariti, ma unica era la scelta di campo; dall’altro, fra coloro che vi aderirono seppur nelle più differenti maniere, dominava invece la divisione ideologica e strategica: dai settari carbonari o buonarrotiani ai mazziniani, dai monarchici ai repubblicani, senza considerare la divisione tra federalisti monarchici e repubblicani, tra unitaristi repubblicani e monarchici. I contrasti continuarono poi nei decenni a venire, dopo l’unificazione, e soprattutto si acuirono nel XX secolo, fino alla tragedia della guerra civile fra fascismo e antifascismo, da cui ancora non siamo del tutto guariti. La nostra attuale Repubblica è l’unica al mondo che si fonda su un antivalore; su un principio di odio e divisione – indipendentemente da come si voglia poi giudicare tale principio – fra i suoi stessi cittadini.
È questo uno dei risultati della Rivoluzione italiana: la divisione istituzionalizzata, direi costituzionalizzata, fra gli italiani. È la guerra civile italiana. La storia repubblicana è ancora una storia di odio, al di là della ricostruzione postbellica e del relativo sviluppo economico: oltre all’incancrenirsi della divisione fra Nord e Sud, che ha condotto allo sviluppo delle tematiche secessioniste da un lato e allo strapotere della criminalità organizzata dall’altro, l’odio è sempre e anzitutto di natura ideologica: il terrorismo degli ultimi decenni è manifesto segnale di un mai terminato stato di guerra civile latente. Latente anche ai nostri giorni: non intendo entrare nell’attualità politica, ma non può non apparire evidente a tutti come le differenze ideologiche ancora oggi dividano gli italiani in maniera drammatica, comunque differente dalla normale dialettica democratica degli altri grandi Paesi dell’Occidente. Insomma, tutto ciò dovrebbe essere sufficiente senz’altro per porre seriamente la questione della comprensione di che cos’è che non va nella storia degli italiani.
La Rivoluzione francese, quella inglese, le guerre civili americana e spagnola, nonché le rivoluzioni russa e cinese, e altre ancora, sono stati eventi tremendi, forse presi in sé anche più gravi dei singoli fattori di odio e morte che gli italiani hanno conosciuto dal 1796 in poi; e tuttavia sono sempre stati eventi circoscritti nel tempo, finiti. Si tratta questo di un punto fondamentale: tutti i popoli coinvolti nelle vicende ricordate (e vari altri) hanno regolato anch’essi i propri conti tramite guerre civili e rivoluzioni, talvolta di violenza inaudita (è l’inevitabile prezzo dell’ideologismo rivoluzionario della modernità): ma in ultimo li hanno pur chiusi; o almeno momentaneamente «soffocati».
Noi non abbiamo mai finito di regolarli, anzitutto proprio a livello ideologico. Certo, siamo in pace dal 1945: ma è una pace «esterna», non interna. Conclusa la guerra civile, Francisco Franco costruì subito il più grande cimitero della Spagna (forse del mondo) per raccogliervi tutti i caduti. In Italia sarebbe mai immaginabile una cosa del genere, nel 1946 o oggi dopo sessant’anni? Chi può negare che ancora oggi viviamo in un clima politico avvelenato, segnato dalla continua delegittimazione dell’avversario? È ovvio che di esempi al riguardo se ne potrebbero enumerare migliaia, e non è nostra intenzione, come detto, scendere nell’attualità politica. Ciò che interessa dire è che ancora oggi, e forse più di ieri, la situazione politica italiana vive in perpetua fibrillazione, in un rovente clima di rischio latente. La realtà è che ciò è sempre avvenuto in Italia dal 1796, e ancora oggi si ripropone.
Ha scritto in merito Paolo Mieli: «Alle origini del Risorgimento, solo ed esclusivamente per come sono andate le cose, senza colpe particolari, c’è dunque una sorgente di acqua inquinata che ha infettato il corso del fiume della storia italiana impedendo al nostro Paese di diventare una democrazia come tutte le altre. Una democrazia in cui non si debba ricordare ad ogni ora che si è tutti su una stessa barca come se si dovesse costantemente fare i conti con qualcosa di oscuro, di irrisolto che è alle origini di tutto. Cosicché ci si possa sanamente dividere e contrapporre senza avvertire il pericolo che vada a monte l’intera dialettica democratica». Dopo due secoli appare sempre più evidente il riemergere negli italiani di quella frattura ideologica mai superata. Perché? E perché c’è stata, ed esiste ancora oggi? Perché questo dramma profondo nella storia degli italiani negli ultimi due secoli?
Una seria risposta a tali quesiti richiede a mia opinione l’approfondimento della guerra condotta all’identità italiana in nome dell’unificazione nazionale. Ci si potrà accorgere, forse, che il giudizio di Mieli, vero nella sostanza, è forse troppo benevolo nell’affermazione «solo ed esclusivamente per come sono andate le cose, senza colpe particolari». Ci si potrà accorgere, forse, che le colpe ci sono, e che le cose sarebbero potute andare in maniera differente.
Prima del 1796: il riformismo illuminato. In realtà, se il 1796 segna l’inizio cruento della Rivoluzione in Italia, già nei decenni precedenti il campo aveva cominciato a essere parzialmente seminato dai «novatori» e dalle istanze di cambiamento (proprio come, mutatis mutandis, avveniva per la Francia prerivoluzionaria). Alcune di queste ebbero realmente una portata ideologica rivoluzionaria e sovversiva, soprattutto dal punto di vista religioso. Per la prima volta dai tempi della cristianizzazione d’Italia, dei principi legittimi iniziavano un’azione di limitazione non solo dei poteri della Chiesa (anticurialismo), ma anche dello stesso sensus religiosus delle popolazioni non sporadica e motivata da contrasti momentanei, bensì pedissequamente ricercata e voluta per ragioni ideologiche. L’Italia del Settecento fu per eccellenza il Paese dell’esperimento del «riformismo illuminato» e vari fattori favorivano tale situazione: l’«arretratezza» – dal punto di vista illuministico, naturalmente...

(Tratto da Massimo Viglione, 1861. Le due Italie. Identità nazionale, unificazione, guerra civile, Ares 2011. Tutti i Diritti Riservati).

 

Per ultimo mi sono conservata la rigorosa e accurata recensione pubblicata da Gianfranco Franchi,detto Lankelot,il 21 giugno 2010,al volume pubblicato da Giordano Bruno Guerri,Il sangue del sud.Antistoria del risorgimento e del brigantaggio,da me letto e apprezzato.

 

Guerri Giordano Bruno
 
 
Gio, 21/10/2010 - 19:12 — franchi

 

Altro che banditi incivili e incolti: i briganti che s'opposero alle truppe savoiarde erano patrioti ribelli, contadini esasperati dall'avidità e dallo sfruttamento dei latifondisti, cittadini delusi dalla mendace propaganda garibaldina. E quella che venne combattuta tra 1861 e 1870 fu la prima guerra civile italiana. Parola del padre dell'Antistoria degli italiani Lo storico più coraggioso, spirituale e anticonformista del nostro secondo Novecento, l'etrusco Giordano Bruno Guerri, celebra con la disorientante onestà di sempre i 150 anni dell'Unità d'Italia pubblicando Il sangue del Sud. Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio (Mondadori, 300 pp., euro 20), una lettura penetrante e lucida delle vicende post-unitarie, vicende fondanti per determinare incomprensioni, ostilità e inimicizie tra le due metà della nazione. Lo storico senese ribadisce che la repressione del “brigantaggio” fu una guerra civile, insabbiata nei libri di scuola: anche Angelo Del Boca, qualche anno fa, in Italiani, brava gente? (Neri Pozza) già lamentava «non un cenno alla grande alleanza politica tra le classi dominanti del Nord e i latifondisti del Sud, a tutto danno delle classi subalterne». I briganti andrebbero chiamati con un altro nome nei libri di storia: ribelli. Tenendo presente, avverte Guerri, che è impossibile stendere una vera storia documentata del brigantaggio, perché larga parte dei documenti sono stati distrutti o censurati. Celebrare a dovere i 150 anni dell'Unità d'Italia potrebbe significare impegnarsi a «rintracciare i documenti mancanti, forse ancora nascosti e dimenticati». Perché senza memoria e senza giustizia un popolo cresce sghembo. E non impara a rispettarsi..

 

La storia del nostro Risorgimento è condizionata e contaminata da una retorica che ha costruito, nell'immaginario dei cittadini italiani, un passato leggendario fondato sull'eroismo e sul martirio d'una minoranza di combattenti che credevano nel Bene. Quel Bene era la fondazione dell'Italia. Le cose non stanno proprio così, e non ha senso raccontarsi favole. Serve, secondo il maestro Guerri, una «profonda opera di revisione storiografica». Perché s'è trattato d'una guerra civile: e perché a raccontarla, come sempre, è stato il vincitore. Un vincitore che ha imposto la damnatio memoriae sui vinti, riducendo i suoi massacri alla stregua di semplici operazioni di polizia. Guerri vuole che il Risorgimento sia recuperato per intero, nel bene e nel male. Perché è dall'Unità in avanti che questo ha saputo diventare un grande Paese. E cercare la verità a proposito di quanto è accaduto non può macchiare l'orgoglio della nascita di una nazione.
 
L'Unità d'Italia non seppe integrare tradizioni, culture e lingue diverse: Guerri sostiene che l'educazione all'italianità dei meridionali sia passata per una contrapposizione rancorosa. “Noi”, portatori di giustizia civiltà e legalità, contro “loro”, i briganti. A dividere le parti, spiega lo storico senese, «una diversità radicale e radicata, non un'inconciliabilità momentanea. Qualcosa di molto simile a un'estraneità».
 
Che significava la parola “brigante”? Guerri insegna che a introdurla furono i francesi: nel 1829 i nostri linguisti la consideravano ancora un neologismo. Prima ci si serviva di parole come “bandito” o “fuorbandito”. Secondo lo storico senese, oggi chiameremmo “briganti” dei “terroristi”, o dei “partigiani”. Oppure, aggiungiamo noi, dei “guerriglieri”. La ribellione di quanti non intendevano accettare l'Italia sabauda venne battezzata, insomma, con un francesismo d'accatto: “brigantaggio”. Adottato come sinonimo di “banditismo”.

 

Chi era, allora, il “brigante”? Tante erano le anime dei briganti. Erano combattenti ribelli, erano lavoratori esausti, erano cittadini che rifiutavano gli anni imposti dalla leva militare obbligatoria, nel nuovo Stato, ed erano nostalgici borbonici. Erano a volte disertori, a volte delinquenti, a volte romantici. «Terra, giustizia, onore, tradizione, orgoglio, cacciata dello straniero: erano questi i concetti che invitavano i briganti alla battaglia», insegna Guerri. Secondo lo storico Del Boca invece, si trattava di «almeno 10mila soldati dell'esercito borbonico, migliaia di braccianti senza terra e paesani che rifiutavano la leva obbligatoria e gli inasprimenti fiscali». Tendenzialmente, erano fiancheggiati dal clero. Erano tutti molto religiosi, e molto scaramantici.
 
Non mancavano le donne: secondo Guerri, si trattava di «partigiane ante litteram, antesignane di un femminismo istintivo e rabbioso, ribelli stanche di essere confinate – da sempre – al letto, al focolare e ai figli. Un esercito di nomi e di storie senza volto, un'escrescenza della storia, per decenni considerata ingiustamente marginale». E in questo libro finalmente trattate con rispetto, e con diversa sensibilità.
 
Quanti erano i briganti? Erano parecchi. Guerri riferisce che nel 1861 agivano, dall'Abruzzo in giù, 216 bande. Secondo Del Boca, si trattò di 80mila gregari divisi in circa 400 bande. Guerri spiega bene la loro visione della realtà: «I briganti non si sentivano 'italiani'. I nemici erano usurpatori, colonizzatori arrivati per conquistarli e per cancellare la loro storia, i costumi, i legami e le appartenenze». E com'erano, esteticamente? Considerando i tempi atroci che si vivevano allora, la pessima alimentazione, la scarsissima igiene e il sovrumano analfabetismo, oggi ci sembrerebbero mostri: non soltanto certi contadini non si lavavano quasi mai... I briganti «immaginiamoli magrissimi, di statura bassa, membra grosse, capelli ruvidi e irti, denti guasti, scuri, mancanti. Mani come pale, grosse di calli, dita non fusellate, corte, unghie nere. I pidocchi fanno parte della vita quotidiana, come l'aria». E Guerri parla dei contadini, non di quelli che sono andati alla macchia. In quel frangente le cose peggiorano con una certa facilità.

 

Questa guerra venne combattuta con una legge, la Legge Pica dell'agosto 1863, con cui il governo italiano – sacrosanto ricordarlo – «impose lo stato d'assedio, annullò le garanzie costituzionali, trasferì il potere ai tribunali militari, adottò la norma della fucilazione e dei lavori forzati, organizzò squadre di volontari che agivano senza controllo, chiuse gli occhi su arbitrii, abusi, crimini, massacri». Caddero, secondo le cifre che Guerri considera più attendibili, addirittura attorno alle centomila persone tra i meridionali, complici i caduti per stenti, prigionia, disperazione, suicidio. Morale della favola? «Oggi, non si può più tacere che quella conquista comportò episodi da sterminio di massa».
 
Non mancarono episodi di violenza cieca e gratuita per mano sabauda, come i massacri di Pontelandolfo e Casalduni, completi di saccheggio e stupri: nascevano per rappresaglia, costituirono un focolaio d'odio. In entrambi i casi non ci fu nessun processo. Non c'è mai stata giustizia. E qualcuno voleva non ci fosse nemmeno memoria. Rumiz, su La Repubblica, in agosto, scriveva: «Quattrocento per quaranta. Dieci uccisi per ogni soldato, come alle Fosse Ardeatine. Oggi a Pontelandolfo c'è solo un monumentino con tredici nomi e una lapide in memoria di Concetta Biondi, violentata e uccisa dai soldati. Mancano centinaia di nomi, scritti solo nei registri parrocchiali. Il sindaco: "A marzo siamo stati finalmente riconosciuti come "luogo della memoria". Ma non ci basta: vogliamo essere "città martire" e che questo nome sia scritto sulla segnaletica. Vogliamo che l'esercito riconosca la sua ferocia». Pino Aprile, in Terroni, aggiunge: «Ma a Roma, i nazisti (oltre la strage delle Fosse Ardeatine) non ebbero poi il coraggio di distruggere anche il quartiere in cui era avvenuto l'attentato, come pure avevano ipotizzato. A Pontelandolfo e Casalduni si fece». Paesi che nel 1861 avevano rispettivamente cinquemila e tremila abitanti oggi ne hanno meno della metà. Questo il risultato.

 

Economicamente, il Regno delle Due Sicilie era decisamente più ricco del Regno del Piemonte, almeno per quanto riguardava le riserve auree. Gli abitanti erano gli stessi, nel 1860: 9 milioni. Per i primi trent'anni, l'Italia del Sud fu ben sfruttata dal Piemonte, da questo punto di vista. D'altra parte, nelle terre borboniche non esistevano strade, se non in 227 comuni su 1848, e i chilometri di ferrovie erano decisamente pochi. Eppure, ad esempio, «un'infinità di progetti e decreti stabilivano la costruzione di nuove strade; quasi tutti rimasero impigliati nei lacci della burocrazia e nei contrasti tra comuni, signori, preti e quanti, tra vassalli e valvassori, si arrogassero il diritto di avere voce in ogni decisione. Il morbo è arrivato fino a noi».
 
Guerri ricorda che la base dell'economia meridionale restava l'agricoltura, fondata sul latifondo: i piemontesi non seppero risolvere il nodo della questione agraria, determinando così una delle principali cause del brigantaggio: lo scontento abnorme dei contadini. Che sognavano, naturalmente, una equa redistribuzione dei grandi possedimenti terrieri. A qualcuno di loro Garibaldi aveva promesso terra: ma quella delle camicie rosse non era stata affatto una liberazione sociale. Niente affatto.

 

Tutti si ricordano una frase di Massimo d'Azeglio: «Si è fatta l'Italia, ma non si fanno gli italiani». Nessuno ricorda cosa pensava davvero l'intellettuale piemontese: «La fusione coi napoletani mi fa paura; è come mettersi a letto con un vaiuoloso». Questa nostra amnesia racconta molto del nostro desiderio di mantenere un approccio costruttivo ed edificante, solare e dialettico, per arginare e risolvere i contrasti tra le due metà del Paese. Guerri tiene a puntualizzare che diversi tra i principali padri della patria, come Gioberti, Rosmini, d'Azeglio, Cavour, pensavano a un Regno d'Italia ben diverso, limitato a Piemonte, Lombardia, Veneto e ducati emiliani: «in pratica quella che oggi viene chiamata Padania», chiosa lo storico, ribadendo che si trattava delle regioni più piemontesi o “piemontesizzabili”. L'errore di piemontesizzare il Regno delle Due Sicilie ha determinato un secolo e mezzo di incomprensioni, risentimenti, invidie, vittimismi e gelosie. Probabilmente, peraltro, ha originato un'ondata di emigrazione di straordinaria intensità, prima verso altre nazioni o altri continenti, poi verso il settentrione. E negli ultimi 12 anni le cose non sono state così diverse, nonostante si sia fatto tutto il possibile per nasconderlo, complice la propaganda berlusconiana. 700mila cittadini dell'Italia meridionale hanno dovuto abbandondare casa, famiglia e tessuto sociale per andare in cerca di fortuna a settentrione. Laddove c'è qualcuno che sembra trattarli come creature antropologicamente dfferenti: e non da ieri, da sempre, ovvero da quando chiamava brigantaggio la loro ribellione.

 

Probabilmente queste parole non faranno piacere ai vari Lucio Villari,Giuseppe Galasso,Piero Angela e compagnia cantante,ma questi sono fatti e non chiacchiere di parte.Non sono pregiudizi storici,cioè giudizi storici prevenuti.

A tutto ciò desidero aggiungere che da una stima accurata si è calcolato che dal 1861 in avanti sono andati via dall'Italia 25 milioni di persone.La maggior parte di essi erano meridionali.Tutto ciò grazie all'unificazione(infatti,prima non c'era emigrazione!),cioè all'ingrandimento del Regno sardo,cioè il Piemonte,cioè la Casa Savoia.Con quale coraggio si vuole parlare di unificazione,di unità,anche da parte di "napoletani" assurti alle più alte cariche dello stato? Mistero.

 

A proposito di briganti e brigantaggio raccomando ai nostri sedicenti storici di rinfrescarsi la memoria con la lettura del seguente volume che potrà essere per loro molto istruttivo e illuminante:

Questo libro li informerà sulle "imboscate,sparatorie,torture,rapine,omicidi efferati...Non è il selvaggio West ma il selvaggio Piemonte preunitario(quello che doveva mangiarsi l'Italia foglia a foglia e metttersi alla testa del movimento di unificazione,n.d.a.),dove scorrazzano delinquenti isolati e bande di fuorilegge che non hanno nulla da invidiare,se non la fortuna storiografica,a quelli in azione nel Meridione.Dal crepuscolo del regno di Sardegna all'arrivo delle baionette francesi,fino alla Restaurazione e agli albori dell'unità d'Italia,è un susseguirsi di briganti pronti a lavorare di coltello per mettere le mani sul bottino di vittime occasionali".Ovviamente costoro non destarono l'interesse dello pseudoscienziato torinese Cesare Lombroso,perchè lui,per elaborare la propria teoria pseudoscientifica dell'uomo delinquente,studiava soltanto le dimensione dei crani dei briganti meridionali,attenendosi alla fisiognomica,disciplina pseudoscientifica di antichissime ogirini.Il lettore avrà notata l'abbondanza di pseudo in queste righe,ma ricordi che sono inquadrati nel più ampio contesto del colossale pseudo dell'unificazione della penisola,come del resto lascia capire il titolo di questa Sezione.

 

 

Dopo tutti questi autorevoli giudizi,anche recentissimi,passo a dire le cose come le vedo io,da napoletano in esilio.

A questo argomento ho dedicato buona parte dei miei studi, spinto dalla mia napoletanità e dall'amore della verità.Quindi sono non solo informato,ma soprattutto documentato,come i tanti altri,ormai sempre più numerosi (a dispetto di quanti vogliono negare anche l'evidenza dei documenti), che su questo argomento hanno scritto,nel tempo,una gran mole di testi,ovviamente aborriti dalla più parte degli "storici" accademici,quelli che per definizione,sono considerati storici,mentre invece sono soltanto sedicenti storici,prezzolati estensori della vulgata risorgimentale ufficiale,che hanno ottenuto la cattedra o dai loro confratelli massoni o dai loro compagni comunisti.

Da questa introduzione il lettore può già facilmente capire sia come la penso sia dove andrà a parare tutto il mio discorso,che non prende,quindi,le mosse dai libri di scuola o dai ponderosi testi universitari e specialistici,ma si rifà ai fatti,quelli veri,cioè le cose che successero già da prima del famigerato 1860 .

Secondo la secolare politica bellicista di casa Savoia,l' "l’Italia è un carciofo che bisogna mangiare foglia per foglia"(attribuito da alcuni a Vittorio Amedeo II, da altri a Carlo Emanuele III suo figlio,ma secondo il FUMAGALLI [cfr.G.Fumagalli,Chi l’ha. detto?, 7ª ed.; Milano, Hoepli, 1921, p. 414-415] la paternità del motto si deve restituire a Carlo Emanuele I).Chiunque sia l'autore di cotanto detto dimenticò che alcune qualità di carciofo hanno le spine e,quindi,bisogna essere guardinghi quando li si maneggia e mangia,altrimenti si rischia di fare la fine di Vittorio Emanuele III o del suo pronipote ballerino di cui è perfino inutile riportare il nome chè non ha nulla a che fare con la storia.

Infatti,i prodromi di tutta questa squallida vicenda che va sotto il pomposo nome di "unità d'Italia" vanno ricercati già negli anni '30 del XIX secolo,e precisamente nel 1831 .Si tenga comunque presente che Ferdinando II di Borbone,nato nel 1810,era salito al trono appena il 7 novembre 1830.

 

Oltre alle mie modeste considerazioni,seguono gli scritti,documentati,di studiosi contemporanei che la sanno più lunga di me e ai quali volentieri mi rifaccio e cedo la parola.

 

Correva l'anno 1831 , che segnò la fine definitiva dei moti carbonari. L’entusiasmo provocato dall’attivismo del giovane re accese le speranze del movimento liberale italiano, tanto che gli fu offerta la corona d'Italia: «in un congresso del partito liberale riunito a Bologna, si offrì, per mezzo del giovane esule calabrese Nicola del Preite, a Ferdinando di Napoli, la corona d'Italia, ch'egli non accettava, per non sapere che cosa fare del Papa, e tenne sempre fede al segreto al De Preite, volle che nel regno ritornasse, e spesso il rivedeva con speciale benevolenza. Certamente fino al 1833 nessun principe italiano aveva dato ragione ai liberali come Ferdinando II; se egli avesse voluto, la storia d'Italia mutava, ma egli non sentì il palpito dell'italianità, volle rimanere re assoluto, indipendente da tutti, anche dall'Austria" (da Ferdinando II di Borbone di Alfonso Grasso; e da Nisco Nicola, Storia del reame di Napoli dal 1824 al 1860, Napoli, 1908, vol. II, p. 27-28).

 

Da allora cominciarono tutti i guai non solo di Ferdinando II,ma del Regno delle Due Sicilie e dei meridionali tutti,perchè dietro quell'offerta c'era la massoneria mondiale,con sede a Londra,che disponeva l'andamento della storia del mondo e che ancora oggi in tandem,London-New York,decide i destini del mondo sotto tutti i punti di vista:politico-economico-finanziario,socioculturale,militare.(E decide anche se dobbiamo credere o no agli UFO!),

 

Va anche detto che la medesima offerta fu fatta (ovviamente sempre in gran segreto!) al re di Sardegna,l'enigmatico Carlo Alberto,nato nel 1798 e salito al trono il 7 aprile 1831. Con la sua accettazione cominciarono tutti i guai degli italiani.

 

Ma ritorniamo a Ferdinando II. In politica estera Ferdinando cercò di mantenere il Regno fuori dalle sfere di influenza delle potenze dell'epoca. Tale indirizzo era concretamente perseguito pur favorendo l'iniziativa straniera nel Regno, ma sempre in un'ottica di acquisizione di conoscenze tecnologiche che consentissero, in tempi relativamente brevi, l'affrancamento da Francia ed Inghilterra; il che rese il sovrano (ed il Regno) inviso agli altri Stati europei e politicamente isolato.Va bensì esplicitato che nel 1816 il Governo britannico si era fatto concedere da Ferdinando I il monopolio dello sfruttamento dello zolfo siciliano (il 90% della produzione mondiale) dietro un pagamento quasi irrisorio.Ricordiamo che lo zolfo era una materia d'importanza strategica, con la quale si produceva la polvere da sparo; detenere il suo monopolio significava dominare una fonte essenziale per la guerra.Ferdinando II, deciso a ridurre la tassazione attraverso l'abolizione della tassa sul macinato, gabella invisa alle classi disagiate, decise di affidare il monopolio ad una società francese che concedeva un pagamento più che doppio rispetto all'Inghilterra: questa misura innescò la cosiddetta "questione degli zolfi".

 

 

Il Primo Ministro britannico,Parlmerston,mandò subito una flotta militare davanti al Golfo di Napoli, minacciando di bombardare la città. Ferdinando II tenne duro, preparando la flotta (all'epoca assai sviluppata) e l'esercito alla guerra. La guerra fu sfiorata,ma evitata grazie alll'intervento di Luigi Filippo re dei Francesi: il re dovette rimborsare sia gli inglesi che i francesi per il presunto danno arrecato (da Wikipedia, Regno delle Due Sicilie ; e da Agli inglesi il monopolio dello zolfo siciliano - 24 settembre 1816; e Il Regno delle Due Sicilie prima dell'unità [seconda parte] in Positano News, 14/11/2009).

 

 

La "questione degli zolfi ",scoppiata nel 1836, rappresenta un nodo quasi cruciale,sia perchè con essa ha inizio un lungo contenzioso con la grande Inghilterra imperialista e massonica sia perchè contribuisce a far mettere in luce un personaggio che avrà un'importanza decisiva nelle sorti del Regno delle Due Sicilie,l' avv.Liborio Romano.Ma vediamo come sintetizza,da par suo,questa vicenda Carlo Alianello: "Fin dal 1816 vigeva tra Londra e Napoli un trattato di commercio, dove l'una nazione accordava all'altra la formula della "nazione piú favorita". Subito ne approfittarono i mercanti inglesi per accaparrarsi l'intera, o quasi, produzione degli zolfi, allora fiorente in Sicilia. Compravano per poco e rivendevano a prezzi altissimi. Di questo traffico poco o nulla si avvantaggiava il Reame e meno ancora i minatori e i lavoranti dello zolfo. Ferdinando II volle reagire a questo sfruttamento, tanto piú che, avendo sollevato la popolazione dalla tassa sul macinato, aveva bisogno di ristorare le casse dello Stato in altro modo. Fece perciò un passo forse audace: diede in concessione il commercio degli zolfi a una società francese (Taixe Ayard, ndr) che lo avrebbe pagato almeno il doppio di quanto sborsavano gli inglesi. Dies irae: Palmerston nel 1836 mandò la flotta nel golfo di Napoli, minacciando bombardamenti, sbarchi e peggio. Ferdinando II non si smarrí, e ordinò a sua volta lo stato d'allarme dei forti della costa e tenne pronto l'esercito nei luoghi di sbarco...". Nella vicenda si inserisce don Liborio, che difende le "ragioni" dell'Inghilterra contro la politica economica del Re. Il Romano aveva tra i suoi clienti un certo Sir Close, che durante la controversia col governo di Napoli era stato scelto dal Palmerston per curare gli affari inglesi. Il Close scelse come patrocinatore il Romano. Il Romano, invece di consigliare al suo cliente, per ragioni di imparzialità, un arbitrato internazionale da svolgersi in un paese neutrale "compose una memoria in cui si opponeva con forza al nuovo contratto sostenendo le sue ragioni con tanto vigore che la polizia ne vietò la stampa" (Guido Ghezzi, Saggio storico sull'attività politica di Liborio Romano, Firenze, Le Monnier, 1936).

 

Nell’inverno del 1835 il fratello di Ferdinando II, il principe di Capua, s’innamorò di una bella Irlandese di nome Penelope Smith (cfr. Acton 1962: 115). Al compleanno del re informò Ferdinando II dei suoi progetti di matrimonio. Ferdinando II con tutta chiarezza gli annunciò che non approverebbe mai acconsentito ad un matrimonio con una borghese (cfr.ibid.: 116). Dopo un forte scontro, il principe di Capua fuggì con la sua futura moglie. Il 12 marzo 1836 Ferdinando II emanò un decreto,in base al quale nessun membro della famiglia reale, senza il suo permesso, potesse lasciare il paese e che un matrimonio senza la benedizione del re sarebbe da considerarsi nullo (cfr. ibid: 117). Il re giustificò il suo modo di agire, col fatto che doveva esercitare l’autorità necessaria per salvaguardare lo splendore del trono nella sua purezza (cfr. ibid.). Temple scrisse a suo fratello Palmerston il 4 aprile 1836: anche se fosse stato celebrato un matrimonio legittimo di fronte alla Chiesa Cattolica, esso resterebbe privo di valore per quanto riguarda i diritti civili e politici, di modo che Miss Smyth non potrebbe portare ne il titolo ne il nome del Principe Carlo, e i loro figli non verrebbero considerati come appartenenti alla famiglia reale…” (cfr. ibid:118). Nel frattempo Carlo aveva sposato Penelope a Grettna Green. Ma Ferdinando II rimase fermo nella sua decisione. Più tardi intimò che considerasse il matrimonio come "la la main gauche“, che rinunciasse al suo titolo e che andasse in esilio a Brünn (cfr. ibid.: 122). Palmerston si schierò dalla parte del principe e sua moglie per trarne vantaggio politico (cfr. ebd.: 123). Mise sotto la sua protezione il principe rifugiato in Inghilterra (cfr.Curato,1989: 42). Per i numerosi napoletani in esilio, il principe divenne simbolo vivente di una vittima del dispotismo (cfr. Acton 1962: 388). Il fatto che Palmerston seguisse obiettivi personali e politici, diventa più chiaro nel contesto che in Inghilterra esistesse e tuttora esiste un Royal Marriage Act. Il New York Sun spiega la logica che si nasconde dietro tutto questo: “Quando l´Inghilterra e il popolo inglese accusano qualcuno di un delitto che essi stessi compissero bisogna suonare le campane di allarme. Soprattutto quando parlano di moralità vuol dire che c´e qualche annessione in vista” (De Biase 2002: 61). Acton interpreta il sostegno del Principe di Capua come un insulto a Ferdinando II (cfr.Acton1962:143). Il Principe di Capua visse in seguito a Londra dove accumulò una montagna di debiti. Palmerston pretese che il re estinguesse i debiti che ammontavano a 36.000 ducati (cfr.ibid.: 144). In numerose filippiche Palmerston sostenne la richiesta che Penelope Smith ricevesse il titolo di principessa perché in effetti voleva solo essere "la moglie del proprio marito” (cfr.ibid.: 148). Inoltre Palmerston s’impegnò affinché il Principe di Capua ricevesse mensilmente 4000 ducati. Palmerston accusò Ferdinando II di non aver mai reso pubblico il testamento di suo padre e che si sarebbe appropriato di nascosto dei beni lasciati in eredità a Carlo (cfr. Campolieti 2002: 227). La tattica di Palmerston consisteva nel fomentare sempre di più l’odio tra i due fratelli (cfr.ibid.). Il Principe di Capua divenne emblema della propaganda antiborbonica (cfr. ibid.). In che modo Palmerston strumentalizzò l’accaduto s’intende dalle sue dichiarazioni sproporzionate verso il deputato napoletano Versace: "Stia attento il suo re! Ha lasciato alla mercè di tanti desideri insoddisfatti, e delle pretese dei tanti creditori, il principe Carlo. E suo fratello si vendicherà. Si dichiara pubblicamente vittima dell´insensibile congiunto, farà scrivere e rilevare cose, anche false, che metteranno contro Ferdinando tutta l´opinione pubblica internazionale “.

Come puntualmente accadde!

Mio commento personale a tutto questo:questa è l'Inghilterra,quella che ora si è ridotta alle sceneggiate matrimoniali mediatiche.Verrà anche il suo momento in cui pagherà il dovuto per il male perpetrato per secoli,politicamente e massonicamente! 

 

 

I PLEBISCITI

 

Ferdinando, venutosi a trovare tra due fuochi, cedette e annullò il nuovo contratto, ma dovette pagare i danni. Leggiamo ancora Alianello: "Pareva dovesse scoppiare la scintilla da un momento all'altro. Ci si mise fortunatamente di mezzo Luigi Filippo e la Francia prese su di sé la mediazione. Il risultato fu che lo Stato napoletano dovette annullare il contratto con la società francese e pagare gli inglesi per quel che dicevano d'aver perduto e i francesi per il mancato guadagno. E' il destino delle pentole di terracotta costrette a viaggiar tra vasi di ferro. Chi ci rimise fu il povero regno napoletano; ma l'Inghilterra se la legò al dito come oltraggio supremo ".

 

Ecco come si mise in luce il massone Liborio Romano, l'uomo che nel 1860 condurrà alla rovina il Regno delle Due Sicilie, con la scusa di voler evitare la guerra civile a Napoli.

 

 

Il cosiddetto Risorgimento italiano “non fu che un episodio dell´imperialismo inglese ” (Antonio Nicoletta, "E furon detti briganti".Mito e realtà della 'conquista' del sud",2001,p.49).  

 

 

La verita sugli uomini e sulle cose del Regno d'Italia / rivelazioni di J.A. agente segreto del conte Cavour;a cura di Elena Bianchini Braglia;presentazione di Walther Boni.Sulla copertina l'autore risulta essere Filippo Curletti; mentre per A. Savelli in Archivio storico italiano,1911,p. 222, l'opera è frutto della collaborazione di Curletti e Griscelli.

 
Questo testo (pubblicato dopo il 1860, è molto illuminante.Dovrebbe essere letto e meditato dai tanti "storici" che pullulano nelle nostre patrie università,dai rappresentanti delle Istituzioni che parlano a vanvera,e anche dai nostri politici da strapazzo,uomini culturalmente molto a digiuno.
Filippo Curletti, rifugiato in Svizzera e condannato in contumacia quale mandante di una banda di malviventi piemontesi, per vendetta scrive un memoriale (in francese). Il poliziotto racconta lo svolgimento dei plebisciti a Modena: ”Per quel che riguarda Modena, posso parlarne con cognizione di causa, poiché tutto si fece sotto i miei occhi e sotto la mia direzione. D’altronde le cose non avvennero diversamente a Parma ed a Firenze.”
"Ci eravamo fatti rimettere i registri delle parrocchie per formare le liste degli elettori. Preparammo tutte le schede per le elezioni dei parlamenti locali, come più tardi pel voto dell’annessione. Un picciol numero di elettori si presentarono a prendervi parte: ma, al momento della chiusura delle urne, vi gittavamo le schede, naturalmente in senso piemontese, di quelli che si erano astenuti.
Non è malagevole spiegare la facilità con cui tali manovre hanno potuto riuscire in paesi del tutto nuovi all’esercizio del suffragio universale, e dove l’indifferenza e l’astensione giovavano a maraviglia alla frode, facendone sparire ogni controllo
»
“....In alcuni collegi, questa introduzione in massa, nelle urne, degli assenti, - chiamavamo ciò completare la votazione, - si fece con sì poco riguardo che lo spoglio dello scrutinio dette un numero maggiore di votanti che di elettori inscritti". Nelle altre regioni:
In Toscana una pressante campagna di stampa dichiara “nemico della patria e reo di morte chiunque votasse per altro che per l’annessione.
Le tipografie toscane furono poi tutte impegnate a stampare bollettini per l’annessione: e i tipografi avvisati che un colpo di stile sarebbe stato il premio di chi osasse prestare i suoi torchi alla stampa di bollettini pel regno separato. Le campagne furono inondate da una piena di bollettini per l’annessione.
Chiedevano i campagnuoli che cosa dovessero fare di quella carta: si rispondeva che quella carta dovea subito portarsi in città ad un dato luogo, e chi non l’avesse portata cadeva in multa. Subito i contadini, per non cader in multa, portarono la carta, senza neanche sapere che cosa contenesse
”.
La propaganda savoiarda racconta di un re democratico e disinteressato che rispetta la volontà dei popoli.
Prima dello svolgimento dei plebisciti nell’Italia meridionale, Vittorio Emanuele II si rivolge ai Popoli dell’Italia meridionale con il seguente proclama:
«Le mie truppe si avanzano fra voi per raffermare l’ordine: Io non vengo ad imporvi la mia volontà, ma a fare rispettare la vostra. Voi potrete liberamente manifestarla: la Provvidenza, che protegge le cause giuste, ispirerà il voto che deporrete nell’urna».
Forte del favorevolissimo risultato plebiscitario, il 7 novembre 1860 il Re dichiara:
«Il suffragio universale mi dà la sovrana podestà di queste nobili province. Accetto quest’alto decreto della volontà nazionale, non per ambizione di regno, ma per coscienza d’italiano». Su queste farse nacque il regno d’ Italia (tratto da "Non mi arrendo",05/24/2010).
 
Andando indietro nel tempo, rileviamo che il Regno delle Due Sicilie (dizione a me non gradita, ma debbo rispettare la storia. Io lo chiamerei Regno di Napoli, come è più comunemente riconosciuto e come si chiamava all'epoca di re Carlo di Borbone. La Sicilia ha connotato col suo nome quel Regno, a sproposito, perchè si tratta di una Regione che ha sempre rivendicato la sua autonomia, in ogni epoca, tanto da offrire la corona ad altri, pur di disancorarsi dalla stato a cui apparteneva. Quindi mi sta particolarmente indigesta questa denominazione adottata da Ferdinando IV [poi I] nel 1816 soltanto per motivi di opportunità politica) fu pioniere in Italia e, a volte, anche in Europa di numerose innovazioni per andare incontro alle esigenze del popolo.
 

L’intuizione solidaristica di Ferdinando I e di Ferdinando II

Per comprendere ciò che fece il giovane re Ferdinando IV di Borbone (terzogenito di re Carlo VI di Borbone-Napoli,a cui successe nel 1759 sul trono di Napoli) è doveroso andarsi a leggere un’opera contemporanea,scritta da Piero Pierotti,Imparare l’ecostoria,:note per il percorso di storia dell’urbanistica, SEU, Pisa, 1991.

"Lo Statuto di San Leucio o Codice leuciano, firmato nel 1789 da Ferdinando IV di Borbone, è una raccolta di leggi che, nel Regno di Napoli, regolamentavano la Real Colonia di San Leucio , sorta sulla omonima collina acquistata, nel 1750, da Carlo III di Borbone e adibita alla lavorazione su scala industriale della seta. Il codice, secondo alcuni scritto dalla consorte Maria Carolina d'Asburgo-Lorena , fu edito dalla Stamperia Reale del Regno di Napoli in 150 esemplari. Il testo, in cinque capitoli e ventidue paragrafi, rispecchia le aspirazioni del dispotismo illuminato dell'epoca a interpretare gli ideali di uguaglianza sociale ed economica, e pone grande attenzione al ruolo della donna" (da Wikipedia,sub voce lo statuto di san leucio).

 

Da p.145 a p.148 questo studioso,con rapide e precise pennellate,ci dice di come Ferdinando sia stato precursore del socialismo,della legislazione sociale-previdenziale e del principio di sussidiarietà oggigiorno tanto sbandierato (questo principio,fondato su una visione gerarchica della vita sociale ,afferma che le società di ordine superiore devono aiutare, sostenere e promuovere lo sviluppo di quelle minori).

Si tratta di un concetto proprio della Dottrina sociale della Chiesa,elaborato gradualmente nel tempo,che ho avuto modo di studiare in Etica sociale quando ho frequentato il corso quadriennale di Scienze religiose presso la Pontificia Università Lateranense di Roma,e poi da me riversato nell'insegnamento di questa disciplina nel Corso di diploma presso la Scuola per Assistenti sociali.
Lo Statuto,chiamato subito Codice,fu immediatamente tradotto in greco,tedesco e francese,e divulgato in tutta Europa.Ma fu la sua traduzione in lingua latina,eseguita dal prof.Abate Vincenzo Lupoli(1737-1800),teologo della Città di Napoli,nella cui Regia Università occupava la Cattedra delle Decretali e quella di Diritto ecclesiastico ottenute per concorso,a divulgare il Codice negli ambienti culturali europei.Il Lupoli (nato a Frattamaggiore) nel 1791 fu consacrato Vescovo e resse la Diocesi di Telese e Cerreto.Va opportunamente rilevato che il commento all'edizione latina ai vari capitoli era corredato non solo da richiami alla Binbbia,ma anche al diritto,ai filosofi greci e latini,con riferimenti agli Enciclopedisti francesi,a Voltaire,a Pufendorf,a Grozio,a Montesquieu,a Rousseau,con richiami ad antiche edizioni dei testi (cfr.A.Gentile,L'Abate Vincenzo Lupoli da Frattamaggiore e il Codice borbonico di S.Leucio,Istituto di Studi Atellani,NN.86-87,Anno XXIV,luglio-dicembre 1997,pp.136-40).
Questo era il Regno di Napoli nell'epoca illuministica,quando il Piemonte pensava - tanto per cambiare! - alle solite guerre e a come potersi mangiare il carciofo Italia foglia a foglia.Capito Napolitano? capito Lucio Villari? capito Piero Angela? capito Ernesto Galli della Loggia? capito Giuliano Amato? E potrei continuare,perchè sono in tanti a non voler capire e a continuare a menarcela con odiose menzogne sul Regno del sud,sulle sue condizioni di arretratezza,sulla negazione di Dio,inventata da Gladstone(che poi nel 1876 la smentì!).
Il codice, secondo alcuni scritto dalla consorte Maria Carolina d'Asburgo-Lorena , fu edito dalla Stamperia Reale del Regno di Napoli in 150 esemplari. Il testo, in cinque capitoli e ventidue paragrafi, rispecchia le aspirazioni del dispotismo illuminato dell'epoca a interpretare gli ideali di uguaglianza sociale ed economica, e pone grande attenzione al ruolo della donna" (da Wikipedia, sub voce lo statuto di san leucio).
Fu quindi il sovrano borbonico a volere, nel 1789, la Colonia della Manifattura delle sete di San Leucio ed un apposito codice per regolamentarne la vita associativa e predisporre sostegni “assicurativi” per gli operai. Già nel 1756 gli operai addetti alla costruzione dell’acquedotto Carolino progettato per portare l’acqua alla Reggia di Caserta, avevano scioperato a lungo a causa di un mortale incidente sul lavoro.
Quindi già prima del 1789 qualcuno aveva intuito ch’era il momento di portare a fioritura il germoglio della solidarietà: Ferdinando IV, Re di Napoli (poi Ferdinando I, Re delle Due Sicilie).
La “Legislazione di San Leucio”,nell’intrattenersi sui criteri della organizzazione del lavoro della“Manifattura di sete grezze e lavorate”, si occupa della stessa vita di relazione dei componenti di quella Colonia alla stregua di un vero codice comportamentale e presenta avanzati spunti di carattere economico, sociale e previdenziale,assurgendo così a precursore dei tempi.
Il Cap. III (“Degli impieghi”) disciplina il subentro, in caso di morte di un tessitore, di un nuovo “impiegato” che prenderà “la metà del soldo del defunto quello lasci la vedova… alla quale si darà l’altra metà”. Se la vedova è sola o con figli già in grado di guadagnare “due carlini al giornociascuno”, le resterà un “terzo, ed il rimanente si darà al nuovo impiegato” che poi lo riceverà tutto intero “alla morte della vedova”.
Come può notarsi, la ripartizione del “soldo” avviene, in caso di decesso, secondo princìpi di giustizia perequativa ancora oggi applicati per l’attribuzione diquote di pensione previdenziale o di rendita infortunistica ai superstiti dell’operaio, con l’ovvia notazione che nei nostri giorni non il “soldo”, ma la pensione o la rendita vengono ripartite in quote (il Bimestrale di informazione dell'Inail,maggio/agosto 2003,n.3-4).
 
A questo punto mi corre l'obbligo di fare una diversione,parlando di Gaetano Filangieri (1752-17888). Questo principe napoletano, di orgine normanna, è una gloria della cultura napoletana,dell'Illuminismo napoletano.Si laureò in legge nel 1774 e in quello stesso anno pubblicò le "Riflessioni politiche",con cui mirava ad eliminare gli arbitri del ceto forense,difendendo una disposizione di re Carlo,e stabiliva l’obbligo della motivazione delle sentenze! Ma l'opera che lo ha reso immortale è la "Scienza della legislazione",in sette volumi,di cui furono pubblicati soltanto cinque a causa della morte prematura dell'autore.Pubblicata dal 1780,fu tradotta in inglese,francese,tedesco,spagnolo,russo e svedese.Ad essa si ispirò Benjamin Franklin per la Costituzione americana(fu in corrispondenza col Filangieri) e poi i rivoluzionari francesi.Napoleone Bonaparte ricevette la vedova,riparata a Parigi dopo i moti del 1799,tenendo in bella mostra sulla scrivania un esemplare dell'opera del Filangieri,di cui disse:"Questo giovane è stato maestro di tutti noi"! Fu visitato anche da Goethe(che da lui apprese il pensiero del Vico).I rivoluzionari napoletani del 1799 si ispirarono a lui. Ovviamente i suoi libri furono messi all'ndice dalla chiesa di Roma e banditi dal Regno(perciò la moglie dovette chiedere indulgenza alla regina Maria Carolina e poi riparare a Parigi).Le idee di questo studioso erano rivoluzionarie per l'epoca e antesignane di un nuovo sviluppo del diritto,come poi è avvenuto negli stati moderni.Infatti Filangieri "affermava l'esigenza di una codificazione delle leggi e di una riforma progressiva dalla procedura penale". L'unico luogo in cui cio allora non poteva andare bene fu il Regno delle Due Sicilie di Ferdinando I,dove era stato accantonato il ministro pisano riformatore voluto da Carlo di Borbone,il grande Bernardo Tanucci(1698-1783),e il figlio Ferdinando IV(poi I) fu costretto ad asseconndare la volontà della moglie, Maria Carolina d'Asburgo(figlia di Maria Teresa e sorella minore di Maria Antonietta)che volle l'inglese lord Acton come primo ministro.Quindi a Ferdinando restò solo il limitato esperimento di San Leucio,di cui abbiamo detto.
 
La legislazione di San Leucio fu nel secolo seguente applicata,migliorandola, dal nipote Ferdinando II ai lavoratori del polo siderurgico calabrese, di cui la ferriera di Mongiana rappresenta il centro più importante. 
Il regolamento per le miniere del ferro dei Reali Stabilimenti di Mongiana, datato 13 aprile 1845, è un documento abbastanza raro, poiché in molte nazioni, riguardate oggi come più progredite, spesso non esisteva alcun regolamento e le condizioni di lavoro dei minatori non erano sicuramente invidiabili. La giornata lavorativa era già di sole otto ore, ben lungi dalle sedici applicate in altre nazioni(es.l'Inghilterra,la Germania e gli USA)ed inferiore alle dieci-undici vigenti nel Regno.Per i compiti più disagevoli questo limite poteva essere ulteriormente ridotto. Esisteva una cassa di previdenza per gli infortuni sul lavoro. A partire dal 1840 fu destinato a Mongiana un chirurgo, ma dai documenti non si evince che abbia avuto particolarmente da fare.A parte l'epidemia di colera del 1848, che non investì, comunque, la sola Mongiana,non vi è traccia di malattie epidemiche,né risulta che la popolazione risentisse delle malattie tipiche della maggior parte delle imprese industriali dell'epoca.Da rilevare, poi, la pressoché assoluta assenza di alcolismo.Manca totalmente lo sfruttamento delle donne, mentre il lavoro minorile è limitato a funzioni gregarie,con orari di lavoro molto miti.Oltre al chirurgo,risiedeva a Mongiana stabilmente un farmacista con funzioni di medico,nonché alcuni insegnantiche istruivano i figli degli operai all'intemo della Fabbrica di armi.La Mongiana conquista all’Esposizione industriale di Firenze (1861) una medaglia con diploma; l'anno successivo ghisa, ferro,lame damascate,carabine di precisione,sciabole ed armi varie prodotte dalla ferriera calabrese sono premiate all'Esposizione internazionale di Londra.Le miniere di Pazzano vengono abbandonate subito dopo l'Unità, le gallerie degradate dall'abbandono saranno chiuse (all'ingresso oggi sorge una discarica), anche se le analisi sul minerale consiglieranno di non abbandonare l'impresa.La Mongiana, lasciata senza mercati, privata dei suoi più brillanti tecnici, assisterà impotente al proprio disfacimento,rea di essersi opposta all'annessione.Con legge 21 agosto 1862 n. 793 la Mongiana viene inclusa tra i beni demaniali da alienare;undici anni dopo, con legge 23 giugno 1873 verrà sanata definitivamente la vendita dello stabilimento.A nulla valgono le ripetute suppliche al governo della comunità mongianese che fa un ultimo disperato tentativo con una delibera del consiglio Comunale del 28 novembre 1870, on cui viene chiesta la ripresa dei lavori per rimettere in funzione lo stabilimento,dando conto delle ragioni che la giustificano.È un documento molto bello, dai toni accorati, ma dignitosi e pieni di orgoglio per un passato da non dimenticare. Il linguaggio è decisamente non burocratico, anzi appassionato ed è l'intera comunità che chiede allo Stato di non essere abbandonata e di poter trovare "un mezzo di sussistenza a tanti operai di tutti i mestieri i quali con le rispettive famiglie vennero costretti, attesa la mancanza di lavoro, a provar quanto è cosa dura morir per fame": un disperato appello che, purtroppo, cadrà nel vuoto.Probabilmente è anche l'ultima possibilità, che il Governo non saprà cogliere, di riconciliazione con quanti sono stati defraudati dei loro diritti di cittadini.
Purtroppo,non solo il governo non si farà minimamente turbare da queste petizioni (altre ne seguiranno il 23 ed il 27 aprile 1872,ma ormai i giochi sono fatti);nessuna richiesta dei mongianesi verrà accolta e nessuna commessa per l'esecuzione di alcun lavoro arriverà mai più allo stabilimento. Tutto è già stato deciso: Mongiana deve morire.A Catanzaro, sul banco del banditore,prima che la candela si spenga,Achille Fazzari,ex sarto,ex garibaldino carbonaro,deputato,si aggiudica tutto il complesso.
Peggio non poteva andare. Fazzari non è un imprenditore, anzi è assolutamente incompetente: Mongiana è completamente abbandonata; Ferdinandea diventa un'oasi privata dove il deputato ospiterà l'intellighenzia del momento e sarà effettivamente quel "luogo di villeggiatura" che invece con Ferdinando II non fu mai tale.
Ai mongianesi non rimane altra scelta che emigrare: i più fortunati troveranno lavoro a Terni nella fabbrica d'armi aperta in quella città nel 1884; altri meno fortunati (e saranno tanti) aspetteranno sulle banchine del porto di Napoli il proprio turno per imbarcarsi sui piroscafi diretti verso Stati Uniti, Argentina, Canada, Australia.
I loro figli e nipoti oggi tornano, di tanto in tanto, al loro paese, nessuno di loro, però, ne conosce la storia; qualcuno sa, a mala pena, che un tempo i loro antenati erano stati più ricchi ed il loro paese aveva vissuto tempi migliori"Le Ferriere del Regno:il polo siderurgico delle Calabrie,Università Federico II,Napoli,2002.QUANDO IL NORD D’ITALIA ERA NEL SUD.LA VERGOGNOSA ED IGNOBILE VENDETTA DEI SAVOIA AFFAMA E RIDUCE IN POVERTÀ IL SUD COLPEVOLE DI FEDELTÀ AGLI AMATI BORBONI. .(da Mariolina Spadaro,Le Ferriere del Regno:il polo siderurgico delle Calabrie ,Università Federico II,Napoli,2002.QUANDO IL NORD D’ITALIA ERA NEL SUD.LA VERGOGNOSA ED IGNOBILE VENDETTA DEI SAVOIA AFFAMA E RIDUCE IN POVERTÀ IL SUD COLPEVOLE DI FEDELTÀ AGLI AMATI BORBONI. (da "Archeologia industriale",tema trattato per la classe V ginnasiale,Sezione B,del Liceo classico "Ivo Oliveti" di Locri,dalla prof.Ester Iero in collaborazione con la prof.Maria Carmela Spadaro,avvocato calabrese,ricercatrice presso l’Università Federico II di Napoli ed autrice di numerosi saggi sulla storia del Regno delle Due Sicilie, a partire dall’epoca spagnola).
 
Al termine di questa esposizione sento l'obbligo di riportare l'immagine di tre grandi re della Casa Borbone-Napoli: Carlo VII; suo figlio Ferdinando I e il suo trisnipote Ferdinando II.Quest'ultimo avrebbe meritato,come il suo trisavolo Carlo VII (poi Carlo III di Spagna) che la sua statua fosse esposta al pubblico nell'ultima nicchia fuori il Palazzo Reale di Napoli.Invece in quel posto il re Umberto I fece collocare la statua di suo padre,Vittorio Emanuele II,quello che nel 1860 andò di persona a invadere il Regno delle Due Sicilie,tradendo la fiducia e la buona fede del giovane re Francesco II di Borbone.Possiamo tranquillamente chiamarlo l'Usurpatore.
 
Il re Carlo VII di Borbone-Napoli.A destra la statua esistente nella facciata del Palazzo Reale di Napoli
 
Ferdinando I di Borbone re di Napoli (1751-1825), olio su tela di Vincenzo Camuccini,1818-19
Ferdinando II re di Napoli (1810-59),opera dello scultore Pasquale Ricca
Ferdinando II re di Napoli in una rara foto del 1850

Palazzo Reale di Napoli, opera dell'architetto Domenico Fontana,1600
 
La celebre Reggia di Caserta fatta erigere dal re Carlo di Borbone-Napoli su progetto di Luigi Vanvitelli
(i lavori iniziarono nel 1751 e terminarono nel 1845,ma nel 1780 la Reggia era già abitata)
(Riporto qui quanto inserito in questo sito nella Sezione 8.1 - Cronistoria familiare:sexx-XVIII-XXI:"Grazie ad un cugino di terzo grado,Vitaliano Zamprotta,giornalista addetto all'Ufficio stampa e funzionario della Soprintendenza ai Beni storici-paesaggistici-culturali,che lavora proprio nella Reggia di Caserta,il 17 novembre 2010,sono venuto in possesso delle copie di alcuni documenti.Da tre di essi risultano dei pagamenti al mio avo diretto Giuseppe Zambrotta:uno del 1751 riporta un pagamento di 3,30 ducati;un secondo pagamento è di 13,54 e1/2 ducati; e il terzo riporta 9 ducati per lavori eseguiti per la Reale Scuderia,il Real Magazzino e la costruzione del "Nuovo Real Palazzo"(cioè la Reggia di Caserta).Tutti e tre i documenti,datati 22 novembre 1751,9 febbraio 1752,3 agosto 1753 riportano in calce anche la firma, per ricevuta,del Mastro falegname Giuseppe Zambrotta.A vederla mi è venuto un tuffo al cuore, perchè è stato come andare indietro nel tempo potendo vedere come firmava un mio avo diretto di circa 260 anni fa!Do qui di seguito le copie dei documenti con le relative "traduzioni" eseguite da Vitaliano Zamprotta.
Pertanto,risulta che Giuseppe Zambrotta prese parte ai lavori di costruzione e arredamento della Reggia di Caserta(che fu abitata fin dal 1780) e certamente partecipò anche alla posa della prima pietra avvenuta il 20 gennaio 1752(36mo genetliaco di Re Carlo di Borbone).(Le ianelle o pianelle di cui sopra erano delle mattonelle usate per la pavimentazione o per la copertura dei tetti).Lo storico evento è ricordato in un dipinto del 1845 del pittore Gennaro Maldarelli che si trova nella Sala del Trono della Reggia").
 
A proposito del Re Ferdinando II non posso esimermi dal dire che fu un grandissimo sovrano,come si è potuto ben capire da ciò ho scritto in precedenza.
Se si va a leggere il suo testamento,si può notare che non lasciò immense ricchezze,perché non aveva rubato,come erano abituati a fare i suoi parenti savoiardi prima col regno di Sardegna e poi col regno d’Italia (basti vedere l’appannaggio che il governo dovette concedere annualmente a Vittorio Emanuele II!).
La sua morte a soli 49 anni fu causata da setticemia,non affrontata immediatamente, conseguente a diabete mellito.Con una semplice incisione a Bari,come propose il dott.Nicola Longo,si sarebbe risolto il problema.Invece da Bari fu trasportato a Napoli,via mare,avviandolo a morte sicura,come in effetti fu.La sua morte aprì le porte alla realizzazione dei piani cavourriani e savoiardi che prevedevano di mangiare le ulteriori foglie del carciofo Italia per rimpinzare la pancia del padre della patria!
Purtroppo ciò che aveva lasciato,e che era proprietà di famiglia sia in beni mobili sia immobili, fu subito confiscato dai nuovi padroni d’Italia nel 1860-61,calpestando tutte le norme giuridiche riconosciute.
A distanza di poco più di ottantanni gli usurpatori subirono lo stesso trattamento da parte della Repubblica italiana.
Improvvidamente,poi,nel novembre 2007 i signori Savoia,con la loro solita faccia,avanzarono legalmente una richiesta di risarcimento per l’esilio di 260 milioni di euro al Governo Prodi,caduta nel nulla grazie alla sua inconsistenza giuridica.Non fece ridere nemmeno come barzelletta.
 
Dopo questa lunga chiacchierata,nella quale ho ritenuto doveroso e opportuno presentare soltanto i fatti più noti nella loro vera luce,mi sembra impossibile dover assistere,quotidianamente,in questo 150mo anniversario dell'unità,alle mistificazioni storiche che ci vengono propinate,come se fossimo tutti degli analfabeti,dei deficienti,degli ignoranti che hanno ancora bisogno di essere imboccati.In particolare,provocano nausea le patetiche rievocazioni,con relativi giudizi storici irricevibili,fatte da un ordinario di diritto costituzionale in pensione,che ora si spaccia per storico.Egli è arrivato al punto di dire, bontà sua,che "Gramsci si sbagliò",quando espresse i suoi severi giudizi sull'annessione del sud.Ancor più gravi sono le mistificazioni storiche del duo Barolo-Barbera.Due piemontesi che approfittano settimanalmente del mezzo televisivo e chiacchierano allegramente sull'argomento,buttandosi la palla,a chi la spara più grossa.Trattandosi di due famosi vini piemontesi,siamo portati a pensare che i due compari siano un pò bevuti.Purtroppo,questo è lo stato delle cose,con benedizione dal Colle più alto.Taciamo che su quel Colle ora ci risiede un napolitano!
 
Per il 150 anniversario dell'unità d'Italia certuni hanno ritenuto di doversi sbizzarrire,e ne hanno inventate di tutti i colori.Abbiamo dovuto sorbirceli per forza tra tv,giornali e manifestazioni varie,celebrati unicamente in quelle che furono i centri propulsivi della benefica azione òpolitoc-militare.
 
Tra le tante sciocchezze,abbiamo dovuto sopportare quelle delle trasmissioni televisive assemblate dal giornalista Piero Angela(quello,per intenderci,al quale finora sono state conferite ben 8(otto)lauree honoris causa!Ovviamente di suo sa poco o niente, perchè sono sempre i consulenti e gli "esperti",invitati in trasmissione a parlare,lui fa da spalla e ogni tanto ridacchia d'intesa con l'ospite,specialmente quando le sparano più grosse del solito.Tra gli ospiti eccellenti invitati per celebrare scientificamente i fasti risorgimentali primeggia la professoressa Lucy Riall,che parla italiano con un accento alquanto comico.A costei uno storico italiano,Erminio De Biase,ha indirizzato la lettera che segue:
Lettera di Erminio De Biase del 30 marzo 2011 a Lucy Riall
"Esimia Professoressa,
mi dice,per cortesia,come fa,in televisione, in così poco tempo che ha a disposizione, a dire tante sciocchezze sul cosiddetto risorgimento italiano?Mi spiega,sempre per cortesia, come fa ad avere la spudoratezza di affermare che l'economia meridionale ha tratto vantaggi dall'unificazione italiana?Lo sa che ci vuole una bella faccia tosta per affermare simili panzane? Ha citato come esempio Catania: bene,trovandosi  in zona perché non ha nemmeno nominato Bronte dove, per difendere i propri interessi dai contadini illusi dalle promesse di Garibaldi,i suoi conterranei (ducea di Nelson) sollecitarono prontamente il biondo eroe dei due mondi, a provvedere con fucilazioni immediate?Ed il burattino in camicia rossa prontamente ubbidì.Perché non parla mai della spudorata protezione che la Mediterranean Fleet di S. M. britannica continuamente assicurò al nizzardo da Marsala e fino alla battaglia del Volturno? Forse perché,se lo facesse,dovrebbe poi spiegare che tutta l'epopea risorgimentale non fu altro che un'immensa cortina fumogena sollevata principalmente per nascondere un'immensa operazione voluta,garantita,protetta e,soprattutto,sovvenzionata dalla massoneria inglese per salvaguardare gli interessi commerciali britannici nel Mediterraneo e oltre?
Ed inoltre, lei ha affermato che:
  1. Maz zini contattò Garibaldi perché era venuto a conoscere le sue imprese in Sud-America:FALSO! Garibaldi era già mazziniano quando scappò in Sud-America!
  2. Lei ha paragonato Garibaldi a Che Guevara: FALSO! Garibaldi fu al servizio degli interessi dei liberalmassonici, il Che, al contrario, visse e morì per il popolo!
  3.  Garibaldi era anche un politico. FALSO! Non ha mai capito niente di politica!
  4. L'Inghilterra aiutò il risorgimento solo per amore verso l'Italia: FALSO! La Gran Bretagna pensava solo ai propri interessi e, una nazione "amica", governata da confratelli massoni, avrebbe fatto il suo gioco!

 Garibaldi nel 1860 era depresso perché era venuto a sapere che la fresca sposina era "innamorata" di un altro. FALSO! La sposina non era, poi, tanto fresca perché era incinta di una altro! Era altresì depresso perché Nizza era stata ceduta alla Francia: FALSO! Se così fosse stato, egli -da eroe impulsivo qual era- sarebbe corso a Nizza e non in Sicilia, come invece gli fu ordinato (cfr Laurence Oliphant)!Leggendo la storia di Garibaldi, si è divertita: ma dove l'ha letta, su Topolino?

Se dunque, tutte queste cose, lei non le sa, le approfindisca, colmando così la sua ignoranza in materia, ma se, invece, le conosce bene e le tace per puro opportunismo, mi faccia allora la cortesia, prima parlare del mio Paese, di studiarsela bene la Storia, prima di inventarsela, così come si inventa i suoi eroi!
La saluto cordialmente".
 
Penso sia opportuno aggiungere il CV dell'interessata,passato al vaglio di tutte le baronie scientifiche europee:
CV
Born 1962, 1988 PhD in History at the University of Cambridge; since 1994 Professor in History, Birkbeck University of London; since 2003 Editor, European History Quarterly; 2003-2004 École Normale Supérieure, Paris, France, Professeur invité, Freie Universität, Berlin, Germany Berliner Kolleg für Vergleichende Geschichte Europas, Visiting Professor; 2005-2006 The Leverhulme Trust, Research Fellowship; 2007-2008 Université de Paris Est, France, Professeur invité; since 2007 Member, Faculty of Archaeology, History and Letters, British School at Rome; since 2007 Laboratoire Jean-Baptiste Say, Université de Paris Est, France, Chercheur associé; 2008 The British Academy, Overseas Conference Grant; 2009-2010 Fellowship FRIAS School of History.
E' ovvio che con un simile CV questa persona viene presa come oro colato dalla RAI TV per tutto ciò che dice,come accade per i nostrani Lucio Villari e Alessandro Barbero che,periodicamente invitati,ci dilettano con le loro esegesi storiche e con i loro aneddoti:l'audience è assicurata.
L'esimio prof.Barbero(docente di storia medievale a Vercelli) è stato a Biella insieme al prof.Stefano Bruno Galli(docente di storia delle dottrine politche a Milano).Erano stati invitati per il Pugilato letterario,nell'ambito della stagione culturale di Città Studi.Moderatore una specie di barman.A latere un'altra persona che ogni tanto farfugliava qualcosa di inutile dimostrando una grande ignoranza,come quando ha affermato di ignorare l'esistenza di migliaia di fuoriusciti politici meridionali a Torino a metà '800!L'argomento della sfida era "L'unità d'Italia",a favore della quale parlava il Barbero e,invece,contro il Galli.Il bello è stato sentire il Barbero affernare che all'Inghilterra non importava nulla dell'Italia,stato periferico senza alcuna importanza!Ergo,dobbiamo dedurre noi poveri ignoranti,l'Inghilterra,la marina militare inglese,la massoneria inglese,Palmerston,Gladstone et alii non interferirono minimamente col processo risorgimentale italiano.Consiglio al prof.Barbera di continuare a coltivare i suoi studi medievali e di lasciar perdere il risorgimento,dove scivola continuamente obbligandoci a esilaranti risate!Del resto chi ha letto le note precedenti si sarà reso conto di quanto interferirono le potenze straniere e,in particolare, l'Inghilterra nel processo di unificazione della penisola,che interessava non tanto per fini politici,morali e culturali,ma soprattutto per motivi economico-commerciali,strategici(altro che paese periferico di nessuna importanza!),geografici.Compatisco coloro che studiano con questi professori buoni solo a fare battute e a snocciolare le loro esegesi personali come dei robot(mi fanno venire in mente alcuni looro colleghi che sono diventati,casualmente,in Italia,presidenti del consiglio dei ministri!).
 
Dopo questo intermezzo mediatico,desidero offrire ai lettori una vera chicca,rappresentata dalla ricerca condotta dall'avv.Antonio Pagano e pubblicata nel 2005,che riporto di seguito:
 
Cronologia di un anno infame. La pulizia etnica piemontese nelle Due Sicilie
di Antonio Pagano

La statistica di fine anno 1861, fatta dagli occupanti piemontesi, indicò che nel solo secondo semestre vi erano stati 733 fucilati, 1.093 uccisi in combattimento e 4.096 fra arrestati e costituiti. Le cifre, tuttavia, furono molto al disotto del vero, in quanto non erano indicati quelli della zona della Capitanata, di Caserta, Molise e Benevento, dove comandava il notissimo assassino Pinelli. Al Senato di Torino, il ministro della guerra Della Rovere, dichiarò che 80.000 uomini dell'ex armata napoletana, imprigionati in varie località della penisola, avevano rifiutato di servire sotto le bandiere piemontesi. Vi erano stati migliaia di profughi, centinaia i paesi saccheggiati, decine quelli distrutti. Dovunque erano diffuse la paura, l'odio e la sete di vendetta. L'economia agricola impoverita, quasi tutte le fabbriche erano state chiuse e il commercio si era inaridito in intere province. La fame e la miseria erano diventate un fatto comune tra la maggior parte della popolazione. Il 1° gennaio 1862 in Sicilia insorse Castellammare del Golfo al grido di 'fuori i Savoia. Abbasso i pagnottisti. Viva la Repubblica'. Furono uccisi il comandante collaborazionista della guardia nazionale, Francesco Borruso, con la figlia e due ufficiali. Case di traditori unitari vennero arse. Strappati i vessilli sabaudi, spogliati ed espulsi i carabinieri. Le guardie e i soldati accorsi da Calatafimi e da Alcamo furono battuti e messi in fuga dai rivoltosi. Il 3 gennaio arrivarono nel porto la corvetta 'Ardita' e due piroscafi che furono accolti a cannonate, ma con lo sbarco dei bersaglieri del generale Quintini i rivoltosi furono costretti alla fuga. I piemontesi fucilarono centinaia di insorti tra cui alcuni preti. A Palermo comparirono sui muri manifesti borbonici e sulla reggia fu messa una bandiera gigliata. Agli inizi dell'anno il generale borbonico Tristany, accompagnato da una decina di ufficiali Spagnoli e Napolitani, ebbe un nuovo abboccamento con il comandante partigiano Chiavone, al quale ripeté la richiesta di subordinare le sue forze partigiane alla sua azione di comando affidatogli dal Re Francesco II. A Marsala, durante la caccia ai patrioti siciliani, le truppe piemontesi circondarono la città e arrestarono oltre tremila persone, per lo più parenti dei ricercati, comprese donne e bambini, che furono ammassate per settimane nelle catacombe sotterranee vicine alla città, in condizioni disumane, dove erano prive di luce e di aria. Al ponte di Sessa un plotone di lancieri cadde in un agguato dei partigiani napolitani e sedici soldati furono uccisi. A Napoli si ebbero tumulti per l'applicazione della legge che aveva imposta la nuova tassa detta il decimo di guerra. Proprio in gennaio furono abolite le tariffe protezionistiche per effetto delle pressioni della borghesia agraria del Piemonte e della Lombardia. Queste disposizioni dettero il colpo di grazia alle industrie dell'ex Reame provocando il definitivo fallimento degli opifici tessili di Sora, di Napoli, di Otranto, di Taranto, di Gallipoli e del famosissimo complesso di S. Leucio, i cui telai furono portati qualche anno dopo a Valdagno, dove fu creata la prima fabbrica tessile nel Veneto. Vennero smantellate, tra le altre attività minori, le cartiere di Sulmona e le ferriere di Mongiana, i cui macchinari furono trasferiti in Lombardia. Furono costrette a chiudere anche le fabbriche per la produzione del lino e della canapa di Catania. La disoccupazione diventò un fenomeno di massa e incominciarono le prime emigrazioni verso l'estero, l'inizio di una vera e propria diaspora. Con gli emigranti incominciarono a scomparire dalle già devastate Terre Napoletane e Siciliane le forze umane più intraprendenti. A questo grave disastro si aggiunse l'affidamento degli appalti (e le ruberie) per i lavori pubblici da effettuare nel Napoletano ed in Sicilia ad imprese lombardo-piemontesi che furono pagate con il drenaggio fiscale operato dai piemontesi. La solida moneta aurea ed argentea borbonica venne sostituita dalla carta moneta piemontese, provocando la più grande devastazione economica mai subìta da un popolo. Il 22 gennaio sul Fortore, nel Foggiano una banda di 140 patrioti a cavallo attaccò una compagnia di fanti piemontesi che furono decimati. A Napoli militari piemontesi isolati caddero vittime di attentati. A Mugnano, caduta in un agguato, la banda partigiana di Angelo Bianco fu completamente assassinata dai bersaglieri e dalle guardie nazionali. Il 1° febbraio, nei boschi di Lagopesole, due compagnie di bersaglieri e fanti assaltarono i patrioti di Ninco-Nanco e Coppa, uccidendone 11 e catturando una donna. Proprio in quel giorno il turpe Liborio Romano, quale deputato, propose nel parlamento piemontese di vendere tutti i beni demaniali e degli istituti di beneficenza delle Due Sicilie a prezzo minore del valore reale, a rate fino a 26 anni, pagabile con titoli di Stato al 5%. Il giorno dopo la banda di Giuseppe Caruso sgominò un reparto del 46° fanteria nel bosco di Montemilone. A Reggio Calabria, il 5 febbraio, vennero imprigionati tutti quelli "sospettati" di essere filoborbonici. Sul confine pontificio, lo stesso giorno, alcuni gruppi patrioti comandati dal Tristany furono sconfitti dalle truppe piemontesi nei pressi di Pastena. Pilone, invece, a Scafati sfuggì ad un agguato tesogli dalle guardie nazionali di Castellammare. A Vallo di Bovino furono catturati e fucilati dai patrioti due ufficiali piemontesi. Il generale La Marmora, in visita a Pompei sfuggì ad un attentato da parte della banda di Pilone. A Napoli venne minacciata da Pilone la stessa duchessa di Genova, cognata di Vittorio Emanuele, a cui intimò con una lettera di non uscire da Napoli, pena la cattura. I terrorizzati piemontesi, in quei giorni, persero completamente il controllo della situazione, emanando dei bandi e ordinanze feroci, soprattutto nel Gargano e in Lucera, dove furono comminate pene di morte per la violazione dei più piccoli divieti. Il col. Fantoni in terra di Lucera, dopo aver vietato l'accesso alla foresta del Gargano, fece affiggere un editto che disponeva che: "Ogni proprietario, affittuario o ogni agente sarà obbligato immediatamente dopo la pubblicazione di questo editto a ritirare le loro greggi, le dette persone saranno altresì obbligate ad abbattere tutte le stalle erette in quei luoghi ... Quelli che disobbediranno a questi ordini, i quali andranno in vigore due giorni dopo la pubblicazione, saranno, senza avere riguardo per tempo, luogo o persona, considerati come briganti e come tali fucilati". L'8 febbraio evasero dalle carceri di Teramo 55 patrioti, che si rifugiarono sui monti sotto il comando di Persichini. Inseguiti da un reparto del 41° fanteria, cinque furono uccisi e tredici catturati, ma anche questi furono fucilati dopo qualche giorno. Durante una riunione in una masseria di S. Chirico in Episcopio, la banda di Cioffi, tradita da un tal Lupariello, fu circondata ed assalita da ingenti forze piemontesi, ma l'inattesa e violentissima reazione dei patrioti causò uno sbandamento degli assedianti. Pur subendo due morti e molti feriti, Cioffi riuscì a sganciarsi con tutti i suoi uomini. I cadaveri dei due patrioti morti in combattimento furono esposti dai piemontesi nella piazza della Maddalena a Sarno. Qualche giorno dopo il Lupariello fu catturato e, sottoposto ad un giudizio, giustiziato, poi la sua testa fu apposta dai militari piemontesi su una pertica vicino a una sorgente frequentata dalla popolazione. Il 12 febbraio il colonnello della guardia nazionale di Cosenza, Pietro Fumel, emanò un bando da Cirò veramente raccapricciante: "Io sottoscritto, avendo avuto la missione di distruggere il brigantaggio, prometto una ricompensa di cento lire per ogni brigante, vivo o morto, che mi sarà portato. Questa ricompensa sarà data ad ogni brigante che ucciderà un suo camerata; gli sarà inoltre risparmiata la vita. Coloro che in onta degli ordini, dessero rifugio o qualunque altro mezzo di sussistenza o di aiuto ai briganti, o vedendoli o conoscendo il luogo ove si trovano nascosti, non ne informassero le truppe e la civile e militare autorità, verranno immediatamente fucilati ... Tutte le capanne di campagna che non sono abitate dovranno essere, nello spazio di tre giorni, scoperchiate e i loro ingressi murati ... È proibito di trasportare pane o altra specie di provvigione oltre le abitazioni dei Comuni, e chiunque disubbidirà a questo ordine sarà considerato come complice dei briganti." Costui, un sanguinario assassino, praticò metodicamente il terrore e la tortura contro inermi cittadini e le loro proprietà per distruggere ogni possibile aiuto ai patrioti. Questi orrendi misfatti ebbero un'eco perfino alla camera dei Lords di Londra, dove nel maggio del 1863, il parlamentare Bail Cochrane, a proposito del proclama del Fumel, affermò : "Un proclama più infame non aveva mai disonorato i peggiori dì del regno del terrore in Francia", per cui gli ufficiali che avevano emanato quegli ordini furono allontanati dai propri reparti. Il famoso comandante Crocco, che aveva diviso la sua banda di circa 600 uomini in sei gruppi, l'aveva disseminata nei boschi di Monticchio, Boceto, San Cataldo e Lagopesole. I suoi gruppi patrioti con rapide scorrerie misero a sacco le masserie dei traditori nella zona di Altamura. Poi, il 24 febbraio, Crocco assaltò la guardia nazionale di Corato e batté i cavalleggeri del generale Franzini in uno scontro presso Accadia, dove però perse dodici uomini. Il 1° marzo Crocco riunì nel bosco di Policoro, presso la foce del Basento, i suoi patrioti a quelli di Summa, Coppa, Giuseppe Caruso e Cavalcante, in previsione del piano elaborato dal Comitato Borbonico in Roma (Clary e Statella) di attaccare Avezzano con duemila uomini comandati da Tristany, che, richiamando così le truppe piemontesi, avrebbe dovuto lasciare sguarnito il confine pontificio per lunghi tratti, permettendo ad altre forze borboniche di invadere gli Abruzzi con la contemporanea sollevazione di tutti i patrioti del Reame. Era previsto anche uno sbarco sul litorale ionico di elementi legittimisti spagnoli e austriaci. Una spia infiltrata, Raffaele Santarelli, fece conoscere in tempo il piano ai piemontesi, che presero contromisure sia navali, con la flotta di Taranto, sia per via terrestre con un concentramento di bersaglieri e cavalleggeri. Il 3 e il 4 marzo 1862 Crocco si scontrò al ponte S. Giuliano, sul Bradano, con il 36° fanteria e lo mise in fuga, ma subendo alcune perdite. Nei giorni successivi, l' 8 marzo, a S. Pietro di Monte Corvino, si ebbe un altro scontro di patrioti contro piemontesi, che subirono numerose perdite. Il giorno dopo Crocco sconfisse alcuni reparti di guardie nazionali alla masseria Perillo, nei pressi di Spinazzola, uccidendone dieci, compreso il comandante, maggiore Pasquale Chicoli, un traditore che aveva formato il governo provvisorio di Altamura ancora prima dell' arrivo dei garibaldini. Il 10 marzo Pilone occupò Terzigno, dove dopo aver requisito armi e munizioni, fucilò i ritratti di Garibaldi e Vittorio Emanuele. Il governatore piemontese dispose che tutto il 7° reggimento di fanteria venisse destinato a catturare Pilone. A Baiano, il 12 marzo, venne fucilato un contadino di 16 anni, Antonio Colucci, che, stando su un albero in una masseria di Nola, aveva segnalato ai patrioti l'arrivo di piemontesi. Il ragazzo era stato catturato e processato da un tribunale di guerra che lo condannò alla pena capitale. Nel frattempo continuarono numerosi gli attacchi dei partigiani napoletani, vere e proprie azioni di guerra, contro le truppe piemontesi. Tra gli episodi più importanti sono da ricordare quello del 17 marzo, quando la banda di Michele Caruso sterminò alla masseria Petrella (Lucera) un intero distaccamento di 21 fanti dell'8° fanteria, comandato dal capitano Richard. Il 31 marzo ad Ascoli di Capitanata i patrioti sconfissero, procurando centinaia di morti, i bersaglieri e i cavalleggeri del colonnello Del Monte. Lo stesso giorno, a Poggio Orsini, presso Gravina, i piemontesi misero in fuga un centinaio di patrioti, ma a Stornarella furono massacrati 17 lancieri del Lucca, che ebbe anche 4 dispersi. La provincia di Bari, la terra d'Otranto ed il Tarantino erano tuttavia controllate dalle forze partigiane. In questi avvenimenti vi furono molti garibaldini ed anche regolari piemontesi che disertarono e si unirono ai briganti. Tra i disertori è da ricordare come esempio quello dell'operaio biellese Carlo Antonio Gastaldi, decorato con medaglia d'argento al valor militare nella battaglia di Palestro del 1859. Inviato nelle Puglie a combattere i 'briganti', fu talmente schifato delle nefandezze piemontesi, che divenne addirittura luogotenente del Sergente Romano, insieme ad un altro piemontese, Antonio Pascone. Alla fine di marzo, nel parlamento di Torino fu istituita un Commissione con il compito di studiare le condizioni delle provincie meridionali. Tale Commissione, presieduta dai massoni Giuseppe Montanelli e Luigi Miceli, suggeriva, tra l'altro, di iniziare numerosi e svariati lavori pubblici, istituire nuove scuole comunali per 'illuminare' la gioventù, l'incameramento totale dei beni religiosi, la divisione e vendita dei beni demaniali e comunali. Per la risoluzione del 'brigantaggio' la commissione proponeva anche l'invio di Garibaldi a Napoli e l'aumento delle guardie nazionali. Il mese successivo, il 4 aprile, la legione ungherese, già "usata" da Garibaldi nella sua spedizione, riuscì ad infliggere alcune perdite a Crocco tra Ascoli e Cerignola. Il 6 aprile 200 patrioti assalirono Luco de' Marsi dove si era asserragliato un reparto del 44° fanteria che si difesero efficacemente. Poi il 7 aprile Crocco sconfisse due drappelli del 6° fanteria a Muro, Aquilonia e Calitri, uccidendo una ventina di piemontesi e catturando numerosi prigionieri. A Torre Fiorentina, presso Lucera, l'8 aprile, i lancieri di Montebello uccisero trenta patrioti. Il giorno dopo circondarono i rimanenti patrioti di Coppa e Minelli, che furono quasi completamente distrutti: 40 morti, 21 fucilati dopo la cattura ed altri 42 uccisi mentre 'tentavano la fuga'. In Sicilia, ad Apaforte, Stincone, S. Cataldo e Boccadifalco, la popolazione insorse dando alle fiamme le cataste di zolfo. Furono distrutte tutte le piantagioni e gli animali per protesta contro le vessazioni dei piemontesi. Le truppe francesi di stanza nello Stato Pontificio sequestrarono il 10 aprile le armi e munizioni borboniche a Paliano, a Ceprano, a Falvaterra. Le armi avrebbero dovuto servire per il piano d'invasione capeggiato dal Tristany. Con una delibera del 13 aprile la piazza nota come 'Largo di Castello', dov'è situato il Maschio Angioino, fu fatta chiamare Piazza Municipio dal sindaco massone Giuseppe Colonna. In quei giorni la banda di Pagliaccello, di Cerignola, fu dispersa dai cavalleggeri 'Lucca', che fucilarono 21 patrioti. Duro colpo anche alla banda di Crocco che il 25 aprile 1862, alla masseria Stragliacozza, subì un improvviso attacco dai piemontesi che riuscirono a metterla in fuga, uccidendone 25 uomini. Alla fine del mese, il 28 aprile, Vittorio Emanuele si recò a Napoli a bordo della nave 'Maria Adelaide' e fece un donativo alla statua di S. Gennaro per ingraziarsi i Napoletani. Ma S. Gennaro non abboccò e non fece il 'miracolo'. Crocco, nonostante le dure sconfitte, continuò eroicamente le sue azioni di guerra e il 7 maggio sterminò a Zungoli un distaccamento del 37° fanteria. Tuttavia il giorno dopo, tra Canosa e Minervino, i patrioti di Summa persero 15 uomini per un fortunoso attacco dei cavalleggeri. Nell'occasione fu ferito Ninco-Nanco. Nel prosieguo dell'azione alcune guardie nazionali catturarono una donna, la quale portava in campagna un pezzo di pane al figlio che essi ritenevano un patriota. La legarono, la fecero inginocchiare e la fucilarono. Il 7 maggio esplose anche lo scandalo riguardante la concessione degli appalti per la costruzione delle ferrovie meridionali al massone Adami. Il direttore del giornale 'Espero' di Torino che aveva avuto il coraggio di denunciare alla pubblica opinione le speculazioni commesse dal Bertani e dall'Adami, fu condannato per diffamazione e per ingiurie a due mesi di carcere e a 300 lire di multa. Naturalmente lo scandalo, che cointeressava anche una trentina di deputati piemontesi, fu insabbiata alla maniera piemontese. Chiavone invase e saccheggiò Fontechiari il 10 maggio. Intanto, allo scopo di impossessarsi dell'industria napoletana del gas per ricompensare gli inglesi dell'aiuto ricevuto, i governanti piemontesi avevano subdolamente fatte fare numerose critiche per la qualità del servizio, indicendo una gara per una nuova concessione. Alla gara si presentarono numerosi concorrenti, ed il 12 maggio 1862 venne firmato il nuovo contratto di appalto dell'illuminazione a gas con la ditta Parent, Shaken and Co. La nuova Società venne costituita il 18 ottobre dello stesso anno con il nome di 'Compagnia Napoletana d'Illuminazione e Scaldamento col Gaz', che verso la fine dell'anno seguente inaugurò un nuovo opificio nella zona dell'Arenaccia lungo il fiume Sebeto. Il 18 maggio le collaborazioniste guardie nazionali di Ariano, incontrati presso Sprinia i patrioti di Parisi, si rifiutarono di battersi e si diedero alla fuga, ma ne furono catturate 14. A Catania vi fu un'insurrezione lo stesso 18 maggio, ma fu rapidamente repressa dalle truppe piemontesi che massacrarono 49 civili. Il giorno dopo Chiavone conquistò Fontechiari e Pescosolido, riunendosi con i patrioti di Tamburini e Pastore. Con tutte queste forze tentano di assalire anche Castel di Sangro, ma vennero respinti e costretti a rifugiarsi nel territorio pontificio. A Roma, intanto, erano avvenute le nozze tra Maria Annunziata, una delle prime figlie di Ferdinando II, e l'arciduca Carlo Lodovico, fratello dell'imperatore Francesco Giuseppe. Da questo matrimonio nacque l'erede al trono dell'Austria-Ungheria, Francesco Ferdinando, che fu sempre uno strenuo nemico dell'Italia dei Savoia. L'uccisione di Francesco Ferdinando a Serajevo nel 1914 fu la causa che fece scoppiare la I guerra mondiale. Il 29 maggio fu catturato e poi fucilato a Mola di Gaeta il conte rumeno Edwin Kalchrenth, il famoso capo patriota 'conte Edwino', ex ufficiale della cavalleria borbonica che operava unitamente a Chiavone nella Terra del Lavoro e negli Abruzzi. In giugno i patrioti non diedero tregua ai piemontesi. Il giorno 2, il 44° fanteria fu attaccato al confine tra Abruzzi e Terra del Lavoro, perdendovi cinque uomini. Il 7 giugno Chiavone invase Pescosolido, dove fece rifornimenti per il suo raggruppamento. Ad Acqua Partuta, nel beneventano, il 14 giugno, i patrioti uccisero 11 guardie nazionali e 4 carabinieri che li avevano assaliti. Numerosi patrioti di Guardiagrele attaccarono Gamberale, ma furono respinti da reparti del 42° fanteria. Il giorno 15, la legione ungherese in un drammatico ed imprevisto scontro distrusse nel bosco di Montemilone una banda partigiana di 27 uomini. Presso Ginestra la banda Tortora in uno scontro con gli stessi ungheresi perse 13 uomini. Poi, il giorno dopo, alla masseria La Croce la 4ª compagnia del 33° bersaglieri fu assalita da Crocco e da Coppa, subendo molte perdite, ma a S. Marco in Lamis fu catturato il capo patriota Angelo Maria del Sambro e quattro suoi compagni, tra cui il dottor Nicola Perifano, già chirurgo del 3° Dragoni napoletano, più volte decorato. Furono tutti immediatamente fucilati. Numerosi furono gli scontri tra i piemontesi, particolarmente tra il 61° ed il 62°, contro i patrioti che presidiavano i boschi di Monticchio, di Lagopesole e di S. Cataldo. Il 17 giugno Chiavone, dopo essersi riunito con i patrioti abruzzesi di Luca Pastore e di Nunzio Tamburini sull'altopiano delle Cinque Miglia, invase Pietransieri e attaccò Castel di Sangro, dove però fu respinto. Rientrato nel territorio pontificio, tuttavia, il Tristany il 28 giugno lo fece arrestare e processare da un consiglio di guerra, che lo condannò a morte per rapina e omicidio. La fucilazione di Chiavone volle essere anche un esempio per far attenere i patrioti alle direttive impartite dal Comitato Borbonico. Tutta la penisola sorrentina intanto veniva continuamente rastrellata da numerosi reparti piemontesi, ma senza alcun esito. A Torre del Greco il 7° fanteria, rinforzato da colonne mobili della guardia nazionale, riuscirono a circondare sulle alture della cittadina il gruppo di combattimento di Pilone. Dopo un furioso combattimento, il grosso dei patrioti di Pilone, riuscì a sganciarsi, ma con numerose perdite e molti prigionieri, che il giorno dopo furono fucilati dai piemontesi. Dopo qualche giorno Pilone attaccò temerariamente in località Passanti una colonna di truppe piemontesi, liberando anche alcuni prigionieri che stavano per essere fucilati. Garibaldi, nel frattempo, che era comparso nuovamente in Sicilia il 20 maggio per fomentare una rivolta diretta alla conquista di Roma, si recò Il 29 giugno a Palermo, dov'erano in visita i principi Umberto e Amedeo. Il giorno dopo, al Teatro 'Garibaldi', pronunciò uno sconclusionato discorso, affermando che se fosse stato necessario avrebbe fatto un altro Vespro Siciliano. All'indomani si recò alla Ficuzza per arruolare volontari da impiegare per la conquista di Roma e di Venezia. La Capitanata, il Gargano e la Terra di Bari erano in concreto nelle mani dei patrioti. Lo stillicidio delle continue perdite subìte in luglio dai piemontesi indusse il governo piemontese a sostituire il comandante della zona, generale Seismit-Doda, con il generale massone Gustavo Mazé de la Roche. Costui, per tagliare i rifornimenti ai gruppi patrioti, fece incendiare i pagliai, fece murare le porte e finestre delle masserie e fece arrestare tutte le persone che circolavano fuori degli abitati. La reazione dei patrioti fu immediata con la rapida invasione di grossi paesi, come Torremaggiore, con la razzia di molte mandrie, con l'incendio di masserie e con ripetuti attacchi, nei pressi di S. Severo, ai cantieri della ferrovia Pescara-Foggia allora in costruzione. Il 30 giugno 1862 il generale Tristany, per dare un esempio, fece fucilare due capi patrioti, Antonio Teti e Giuseppe de Siati, che, quali armati per la lotta di liberazione delle Due Sicilie, avevano commesso illegittimamente alcuni furti durante azioni di guerriglia. Il Tristany aveva voluto, con quest'episodio, improntare esclusivamente con carattere militare le azioni guerrigliere dirette soprattutto contro le pattuglie piemontesi in perlustrazione nelle campagne. Lo stesso giorno la banda dei patrioti comandata dai fratelli Ribera partì da Malta e sbarcò a Pantelleria, allo scopo di liberare l'isola dai piemontesi e per ripristinare il governo borbonico. Con l'aiuto di tutta la popolazione, i patrioti compirono numerose azioni contro i traditori collaborazionisti e le guardie nazionali che prevaricavano sulla gente. Il 1° luglio il Re Francesco II protestò da Roma contro il riconoscimento fatto dai vari Stati europei ai Savoia come re d'Italia. Nei primi giorni di luglio, il famoso comandante patriota Giuseppe Tardio, uno studente di Piaggine Soprano, che aveva organizzato il suo gruppo di combattimento nell'ottobre del 1861 nella zona di Agropoli, dopo aver eliminate le guardie nazionali che incontrava, invase con i suoi uomini prima Futani e poi Abatemarco, Laurito, Foria, Licusati, Centola e Camerota. Nella sua avanzata gli si aggregarono molte centinaia di patrioti, che in seguito dovettero tuttavia disperdersi per i continui attacchi delle truppe piemontesi. Il 6 luglio Garibaldi, in occasione di una rivista alla guardia nazionale a Palermo, pronunziò davanti alle autorità un violento discorso contro Napoleone III che riteneva responsabile del brigantaggio. Altro scontro dei patrioti di Crocco avvenne il 14 luglio a Lacedonia con i bersaglieri, che persero cinque uomini. Si ebbero nel mese ancora numerosi scontri tra piemontesi e patrioti, che attaccavano all'improvviso ed improvvisamente sparivano. Il 16 luglio un reparto del 17° bersaglieri, in un durissimo e prolungato combattimento, uccise il comandante partigiano Malacarne (fratello del famoso Sacchettiello) ed altri sei patrioti. Il 19 luglio molti patrioti abruzzesi attaccarono presso Fossacesia il magazzino degli imprenditori ferroviari Martinez, uccidendo alcuni tecnici, e invasero l'abitato che fu saccheggiato. Ad Amalfi però la superiorità partigiana si manifestò in tutta la sua evidenza quando il 22 luglio i partigiani occuparono la città, tenendola addirittura per due giorni. Lo stesso giorno, tuttavia, la bestiale legione ungherese uccise 12 patrioti a Tortora. Alla fine di luglio, sui monti del Matese, nelle zone di Piedimonte d'Alife e di Cerreto Sannita, i gruppi di combattimento patrioti di Cosimo Giordano, Padre Santo e De Lellis contrastarono ferocemente e vittoriosamente i rastrellamenti effettuati dai reparti del 39° e 40° fanteria. Il 26 luglio, dopo un lungo silenzio, i patrioti del sergente Romano invasero Alberobello, dove, eliminate le guardie nazionali, si rifornirono di tutte le loro armi e munizioni. Agli inizi di agosto 1862 i gruppi patrioti del Pizzolungo e dello Scenna, in numero di 200, invasero nel Vastese le cittadine di Villalfonsina, Carpineto, Guilmi, Roio, Monteferrante, Colle di Mezzo, Pennadomo e Roccascalegna, dove saccheggiarono le case dei collaborazionisti con i piemontesi e li trucidarono. In Pantelleria la banda Ribera non riuscì in un tentativo di giustiziare il sindaco, connivente dei piemontesi, ma inflisse numerose perdite ai reparti piemontesi che li inseguivano. L'imprendibilità e le quasi sempre vittoriose azioni dei patrioti di Ribera indussero i piemontesi ad inviare nell'isola altra 500 soldati sotto il comando del feroce colonnello Eberhard, già sperimentato in azioni di controguerriglia nel continente. La continua opera di reclutamento e di propaganda di Garibaldi, finalizzata a conquistare anche Roma, indusse Vittorio Emanuele ad emanare il 3 agosto un proclama con cui, senza mai nominare il nizzardo, condannava la sua iniziativa. Il 4 agosto il gruppo patriota di Abriola invase e saccheggiò le case di alcuni traditori di Campomaggiore. Fra il 3 ed il 5 agosto, disgustati per l'ingrata opera di repressione, gli usseri e la fanteria ungherese stanziati a Lavello, Melfi e Venosa si misero in movimento per concentrarsi a Nocera, ma, bloccati e disarmati dai piemontesi, furono imbarcati a Salerno il 13 agosto per ordine di La Marmora, che li fece trasportare in piemonte. 150 ungheresi tuttavia riuscirono a fuggire con lo scopo di raggiungere Garibaldi. Sulle montagne tra Castro e Falvaterra, i patrioti, approfittando del marasma causato da Garibaldi, si lanciarono in una cruenta offensiva e invasero i comuni di Campomaggiore, nel potentino, e Flumeri, nell'avellinese. La cittadina di Sturno fu occupata e tenuta fino al 7. Intensi combattimenti vi furono per tutto il mese nell'Alta Irpinia: a Bisaccia, Guardia Lombardi, Monteleone, Pescopagano, Avigliano, S. Sossio, Ariano, Genzano, Frigenti. Ogni piemontese scovato era immediatamente fucilato. Il 6 agosto Garibaldi si scontrò a S. Stefano di Bivona con le truppe piemontesi e si ebbero alcuni morti da ambo le parti. A Fantina, in Sicilia, sette volontari per Garibaldi della colonna Tasselli, dei quali cinque disertori piemontesi, vennero catturati da un reparto del 47° fanteria, comandato dal maggiore De Villata, e fucilati sul posto. Trentadue ufficiali della brigata 'piemonte', che avevano dato le dimissioni nei pressi di Catania, furono arrestati e privati del grado dal Consiglio di disciplina di Torino, per 'mancanza contro l'onore'. A Torino, fu varata una legge che disponeva una 'spesa straordinaria' di lire 23.494.500 per l'acquisto e la fabbricazione di 676.000 fucili da destinarsi alle guardie nazionali. Verso la metà del mese vi fu un'evasione in massa dal carcere di Granatello di Portici di detenuti politici, che andarono ad ingrossare le bande partigiane. Nel frattempo, mentre il 13 agosto in Capitanata i patrioti avevano occupato Zapponeta ed otto comuni del Vastese, Garibaldi scorrazzava per la Sicilia, entrando in Catania il 18 agosto. La Marmora proclamò il 20 lo stato d'assedio in tutta la Sicilia e dichiarò ribelle Garibaldi, che si accingeva a risalire la penisola con il suo Corpo di Volontari. Il 22 agosto al massone Bastogi fu concesso l'appalto per la costruzione delle ferrovie nel sud dell'Italia, per cui fu costituita la società delle Strade Ferrate Meridionali. Nel consiglio d'amministrazione della società facevano parte ben 14 deputati piemontesi, che erano stati anche ricompensati con 675.000 lire per il loro 'interessamento'. Vice presidente della società fu nominato Bettino Ricasoli. Lo Stato accordò un sussidio a Bastogi di 20 milioni di lire e lo sfruttamento per 90 anni dei 1.365 chilometri di ferrovia. Tra i finanziatori vi erano la Cassa del Commercio di Torino, i fratelli ebrei massoni Isaac e Emile Pereire di Parigi, e la società di Credito mobiliare spagnolo (di cui Nino Bixio era consigliere di amministrazione). Tra i vari possessori delle azioni della società figuravano molti massoni, tra cui il fratello di Cavour, il marchese Gustavo, il Nigra, il Tecchio, il Bomprini, il Denina, il Beltrami. Dopo lo sbarco di Garibaldi, il 24 a Pietra Falcone, sulla spiaggia tra Melito e Capo d'Armi, lo stato d'assedio fu esteso il 25 agosto a tutto il Mezzogiorno. Approfittando dello stato d'assedio i piemontesi saccheggiarono moltissime chiese, rubando ogni oggetto prezioso. Fu soppressa la libertà di stampa e di riunione. Anche la posta fu censurata. Fu instaurata una feroce dittatura militare. I principali comandanti patrioti di Terra d'Otranto, allora, si riunirono nel bosco di Pianella, a nord di Taranto, per concordare l'unitarietà del comando e la condotta delle operazioni, con lo stabilire le zone di competenza. Il sergente Romano ebbe a disposizione oltre 300 uomini a cavallo, suddivisi agli ordini dei luogotenenti Cosimo Mazzeo (Pizzichicchio), Giuseppe Nicola La Veneziana, F.S. L'Abbate, Antonio Lo Caso (il capraro), Riccardo Colasuonno (Ciucciariello), Francesco Monaco (ex sottufficiale borbonico) e Giuseppe Valente (Nenna-Nenna, ex ufficiale garibaldino). In quei giorni, tutta la Terra d'Otranto rimase sotto il totale controllo dei patrioti. Sull'Aspromonte il 29 agosto, a seguito di un brusco voltafaccia del governo savoiardo (che fino allora l'aveva nascostamente appoggiato), vi fu uno scontro tra le truppe piemontesi e gli avventurieri di Garibaldi, che fu intenzionalmente ferito e fatto prigioniero. I piemontesi subito dopo gli scontri fucilarono a Fantina, senza alcun processo, sette disertori piemontesi che erano con Garibaldi, che a seguito della cattura fu rinchiuso per qualche tempo nel forte di Verignano. Pochissimi popolani l'avevano seguito nell'avventura, la maggior parte erano piemontesi disertori. Il Tribunale Militare degli invasori piemontesi emise in seguito 109 condanne a morte, 19 ergastoli e 93 condanne ai lavori forzati. Il Savoia, per questi fatti, concesse 76 medaglie al valore. Il 31 agosto un reparto del 18° bersaglieri uccise tredici patrioti ad Apice, in provincia di Benevento. I patrioti di Tristany ebbero uno scontro a fuoco con gli zuavi pontifici nei pressi di Falvaterra e a Castronuovo. Numerosi patrioti a cavallo attaccarono agli inizi di settembre reparti piemontesi di stanza nell'Irpinia a Flumeri, a S. Sossio ed a Monteleone, alla masseria Franza (Ariano) e nei boschi di S. Angelo dei Lombardi. Il 6 settembre i patrioti riuscirono a disarmare la guardia nazionale di Colliano, in provincia di Campagna. Notevole, il 7 settembre 1862, lo scontro alla masseria Canestrelle, nel Nolano, di bersaglieri e cavalleggeri che attaccarono un gruppo di duecento patrioti, che furono costretti a disperdersi, perdendo tuttavia 15 uomini. Dopo qualche giorno, il giorno 11 settembre, i patrioti di Crocco e di Sacchetiello si vendicarono alla masseria Monterosso di Rocchetta S. Antonio (Foggia) attaccando un drappello di venti bersaglieri del 30° battaglione che furono tutti uccisi. A Carbonara i patrioti di Sacchetiello massacrarono 25 bersaglieri del 20° battaglione, comandati dal sottotenente Pizzi. Aliano e Serravalle furono liberate dai patrioti che minacciarono di invadere anche Matera. In Pantelleria, nel frattempo, i piemontesi, che avevano instaurato in tutta l'isola una feroce legge marziale, riuscirono a convincere quasi quattrocento isolani a collaborare con le truppe savoiarde. Formate tre colonne, il colonnello Eberhard, governatore militare dell'isola, fece avanzare il 18 settembre le truppe a raggiera per setacciare tutta l'isola. I patrioti erano nascosti in una profonda caverna posta quasi sulla sommità della Montagna Grande a 848 metri si altezza, in una posizione imprendibile, ma traditi da un pecoraio furono circondati e dopo una sparatoria, in cui morirono alcuni piemontesi, furono costretti ad arrendersi a causa del fumo di zolfo acceso davanti alla caverna che aveva reso l'aria irrespirabile. I patrioti ammanettati, laceri e smunti, furono fatti sfilare nelle strade di Pantelleria al suono di un tamburo e col tricolore spiegato, tra ali di gente commossa fino alle lagrime. Tutte le spese dell'operazione, lire 637, furono a carico del comune. Furono incarcerati a Trapani, ma alcuni, tra cui due fratelli Ribera, riuscirono a evadere dalle carceri della Colombaia. Dei rimanenti 14, processati il 14 giugno 1867, 10 furono condannati a morte per impiccagione e gli altri ai lavori forzati. A Roma, in quei giorni, Francesco II si trasferì con tutta la sua corte nel Palazzo Farnese, che era di proprietà dei Borbone, dopo averlo fatto ristrutturare, poiché erano secoli che non era stato abitato. Il 1° ottobre a Palermo furono accoltellati simultaneamente, in luoghi diversi, tredici persone. Uno degli accoltellatori, inseguito e arrestato, confessò che gli era stato ordinato da un 'guardapiazza' (quello che oggi viene chiamato mafioso) di colpire alla cieca e che erano stati pagati con danaro proveniente dal principe Raimondo Trigona di Sant'Elia, senatore del regno, delegato da Vittorio Emanuele II. Da successivi controlli fatti dal piemontese sostituto procuratore del re Guido Giacosa, evidentemente all'oscuro delle criminali intenzioni del governo piemontese, venne accertato che i moltissimi omicidi, avvenuti anche prima e molti altri dopo, avevano il solo scopo di 'sconvolgere l'ordine' per poter permettere e giustificare la feroce repressione così da eliminare impunemente la resistenza siciliana antipiemontese. L'indagine, che portò a riconoscere la responsabilità di quei sanguinosi crimini al reggente della questura palermitana, il bergamasco (ma messinese di nascita) Giovanni Bolis, antico affiliato carbonaro con La Farina, fu, comunque, subito chiusa. In quel mese di ottobre 1862 vi furono moltissime, alcune violente, manifestazioni di quasi tutte le popolazioni delle Puglie e della Basilicata. I contadini si rifiutarono di eseguire i lavori nei campi per protestare contro gli abusi e le violenze dei soldati piemontesi. Alcuni contadini furono fucilati "per dare l'esempio" dalle truppe piemontesi. Un gruppo di patrioti di Romano, comandato da Valente, riunitisi nella masseria S. Teresa, decisero di attaccare la guardia nazionale e i carabinieri di Cellino e S. Pietro Vernotico, che li braccavano. Tre militari furono uccisi 'perché portavano il pizzo all'italiana' e nove, furono sfregiati con l'asportazione di un lembo dell'orecchio, per essere così 'pecore segnate'. I gruppi di Tardio invasero i paesi di S. Marco La Bruna, Sacco e S. Rufo, dove sgominarono le guardie nazionali e ne saccheggiarono le case. Il 24 ottobre Tristany si scontrò sul confine pontificio con le truppe francesi e subì la perdita di due ufficiali. Nel mese di ottobre, essendosi fatta insostenibile la sistemazione dei prigionieri di guerra e dei detenuti politici, con la deportazione degli abitanti d'interi paesi, con le "galere" piene fino all'inverosimile, il governo piemontese diede incarico al suo ambasciatore a Lisbona di sondare la disponibilità del governo portoghese a cedere un'isola disabitata dell'Oceano Atlantico, al fine di relegarvi l'ingombrante massa di molte migliaia di persone da eliminare definitivamente. Il tentativo diplomatico, tuttavia, non ebbe successo, ma la notizia riportata il 31 ottobre dalla stampa francese suscitò una gran ripugnanza nell'opinione pubblica. Il maggiore piemontese Aichelburg con fanti e bersaglieri attaccò il 2 novembre a Tremoleto i patrioti di Petrazzi, uccidendo 9 guerriglieri. Tutto il Sud fu diviso in zone e sottozone con posti fissi di polizia e fu raddoppiato il numero dei carabinieri. I guerriglieri di Romano subirono una pesante sconfitta il 4 novembre presso la masseria Monaci. Per quest'avvenimento Romano divise le sue bande in piccoli gruppi più manovrabili, seguendo la tattica di Crocco. A S. Croce di Magliano duecento patrioti di Michele Caruso attaccarono il 5 novembre la 13ª compagnia del 36° fanteria, massacrando il comandante ex garibaldino dei 'mille', capitano Rota, e ventitré piemontesi. Il giorno dopo, inseguiti da un battaglione del 55° fanteria, gli stessi patrioti tesero loro un agguato e uccisero un sergente e tre soldati, senza subire perdite. A Torre di Montebello una compagnia di bersaglieri del 26° e cavalleggeri del 'Lucca' in un furibondo combattimento distrusse l'8 novembre l'intera banda di Pizzolungo. Quelli che furono fatti prigionieri furono immediatamente fucilati. Il 16 novembre, nonostante l'opposizione di La Marmora, fu revocato da Rattazzi lo stato d'assedio nelle provincie meridionali, ma in realtà rimasero ancora in vigore la soppressione ed il divieto di introdurre nel Mezzogiorno di tutta la stampa non governativa e la sospensione delle libertà d'associazione e di riunione. Addirittura furono intensificati gli arresti di semplici cittadini solo per il fatto di essere 'sospetti' patrioti borbonici. In Capitanata, per ordine del generale Mazé de la Roche e del prefetto De Ferrari, furono compilate liste d'assenti dal proprio domicilio e dei sospetti, furono istituiti fogli di via senza dei quali nessuno poteva uscire dagli abitati, imposero l'abbandono delle masserie e il divieto di portare generi alimentari nelle campagne. Così nell'avellinese furono perquisite e saccheggiate le case degli assenti, ai contadini fu ordinato di trasferirsi nei paesi con le masserizie, il bestiame ed il raccolto. Divenne sistematico l'arresto dei parenti fino al terzo grado dei patrioti. Le popolazioni, che già vivevano nel terrore e nei soprusi dei piemontesi, vissero in quei lunghi mesi in modo veramente tragico, anche perché ogni attività lavorativa fu in pratica soppressa e la vita economica e sociale ne fu paralizzata. Il 17 novembre, per reazione, vi furono in vari paesi molti attentati a esponenti liberali da parte dei patrioti. A Grottaglie i patrioti di 'Pizzichicchio' s'impadronirono addirittura della cittadina, dove liberarono i detenuti dalle carceri e eliminarono tutti i possidenti liberali, che erano stati particolarmente oppressivi con i loro braccianti, devastandone e saccheggiandone le abitazioni. Furono abbattuti gli stemmi sabaudi e ripristinati le insegne borboniche tra le grida di esultanza di tutta la popolazione e financo del sindaco, che giorni dopo fu arrestato dai piemontesi. Il generale Franzini fece uccidere il 20 novembre alla masseria Lamia nove patrioti delle bande di Petrozzi e Schiavone, catturati di sorpresa. L'indomani a Rapolla, nei pressi di Ponte Aguzzo, uno squadrone cavalleggeri 'Saluzzo' attaccò un centinaio di patrioti di Crocco che perdette nove uomini. Altri venti, tra feriti e catturati, furono subito fucilati. I patrioti di Romano, in quel giorno, invasero le cittadine di Carovigno ed Erchie, disperdendone la guardia nazionale e saccheggiando le abitazioni dei liberali conniventi dei piemontesi. Il giorno 27 furono sorpresi a Casacalenda in una chiesa due patrioti che, dopo essere stati incarcerati a Larino, furono fucilati 'per tentata fuga' due giorni dopo. Alla fine di novembre, morto il generale borbonico Statella, che da Roma ne coordinava le azioni, nonostante gli appoggi forniti dal generale Bosco, il gruppo di combattimento del colonnello Tristany si dissolse. Gli ufficiali stranieri se ne tornarono ai loro paesi e i gregari si riversarono in altri gruppi patrioti. Il primo dicembre un reparto del 10° fanteria, per effetto di una delazione, riuscì a sorprendere alla masseria Monaci, nei pressi d'Alberobello, alcuni gruppi patrioti di Romano, di cui fucilarono 14 uomini, compreso il capo partigiano La Veneziana. Il giorno 11 dicembre i patrioti a cavallo di Michele Caruso assaltarono vittoriosamente a Torremaggiore la 13ª compagnia del 55° fanteria, che tornava da Castelnuovo Daunia, dove aveva compiuto operazioni di leva. A Ururi i piemontesi con uno stratagemma arrestarono il sindaco, tutti i consiglieri ed il prete come 'sospetti' e li fecero incarcerare a Larino. A S. Croce di Magliano, su segnalazione del sindaco massone De Matteis, furono inviate truppe piemontesi a circondare le masserie Verticchio, De Matteis e Mirano, dove sono sorpresi e fucilati quattro patrioti. Nella stessa zona il comandante della guardia nazionale di S. Martino, il massone conte Bevilacqua, con cento uomini e una compagnia di fanti piemontesi riuscirono a catturare in un bosco circa 47 patrioti, che furono tutti fucilati a Larino. Il 14 dicembre, a Napoli, nel carcere di S. Maria Apparente vi furono violenti tumulti per le condizioni inumane in cui erano tenuti i prigionieri. Vivevano in fetore insopportabile. Erano stretti insieme assassini, sacerdoti, giovanetti, vecchi, miseri popolani e uomini di cultura. Senza pagliericci, senza coperte, senza luce. Un carcerato venne ucciso da una sentinella solo perché aveva profferito ingiurie contro i Savoia. Spesso le persone imprigionate non sapevano nemmeno di cosa fossero accusati ed erano loro sequestrati tutti i beni. Spesso la ragione per cui erano imprigionati era solo per rubare loro il danaro che possedevano. Molti non erano nemmeno registrati, sicché solo dopo molti anni venivano processati e condannati senza alcuna spiegazione logica. Questo era il governo dei Savoia, 'vera negazione di Dio'. A Torino, per acquietare l'opinione pubblica, fu nominata il 15 dicembre una Commissione d'inchiesta sul 'brigantaggio', dopo che vi erano state numerose denunce contro le barbarie commesse dalle truppe piemontesi contro patrioti che difendevano la libertà delle loro terre. Un deputato, Giuseppe Ferrari, federalista convinto, aveva detto '...potete chiamarli briganti, ma i padri di questi briganti hanno per due volte rimesso i Borbone sul trono di Napoli... Ma in che consiste il brigantaggio ' nel fatto che 1.500 uomini tengono testa a un regno e ad un esercito. Ma sono semidei, dunque, sono eroi ! ...Io mi ricordo che vi dissi che avendo visitato le province meridionali avevo veduto una città di cinquemila abitanti distrutta, e da chi ' dai briganti ' NO!' La città era Pontelandolfo. Il 17 dicembre i bersaglieri del 29° battaglione riuscirono a sgominare i patrioti dell'avvocato Giacomo Giorgi presso Palata, nel Molise, dove uccisero 5 patrioti, catturando anche una partigiana. La banda di Carbone fu accerchiata il 20 dicembre da fanteria, cavalleria e guardie nazionali nella masseria Boreano, nei pressi di Melfi. Furono tutti uccisi appena catturati. Il 21 dicembre cavalleggeri piemontesi sorpresero nella cascina Barcana, nei pressi di Venosa, una ventina di patrioti che fecero morire atrocemente tra le fiamme. Il 23 dicembre, migliaia di cittadini di Napoli, inviarono una petizione al Re Francesco II con la quale, nell'indicare le barbarie degli invasori piemontesi, riaffermavano la fedeltà alla monarchia dei Borbone e la speranza di un prossimo ritorno sul trono delle Due Sicilie. Il giorno 29 lo squadrone cavalleggeri 'Saluzzo', stanziati a Gioia del Colle, salvarono un drappello di guardie nazionali di Acquaviva che erano stati circondati dai patrioti. In Capitanata, reparti dell'8°, del 36° e del 49° fanteria, comandati dal colonnello Favero, attaccati il 31 dicembre 1862 da un consistente numero di patrioti vennero sterminati con perdite superiori ai 150 morti. L'anno 1862 si chiuse .... ...con una relazione alla Camera di Torino sulla situazione nell'ex Regno delle Due Sicilie con i dati ufficiali di 15.665 fucilati, 1.740 imprigionati, 960 uccisi in combattimento. Gli scontri a fuoco di una certa consistenza nell'anno furono 574. I meridionali emigrati all'estero furono circa 6.800 persone. Le forze piemontesi di occupazione risultarono costituite da 18 reggimenti di fanteria, 51 'quarti' battaglioni di altri reggimenti, 22 battaglioni bersaglieri, 8 reggimenti di cavalleria, 4 reggimenti di artiglieria. Nei territori delle Due Sicilie si contavano circa 400 bande di patrioti legittimisti, comandate per la maggior parte da ex militari borbonici. Il Piemonte, che era lo Stato più indebitato d'Europa, si salvò dalla bancarotta disponendo alla fine dell'anno l'unificazione del 'suo' debito pubblico con gli abitanti dei territori conquistati. Furono venduti, con prezzi irrisori, ai traditori liberali tutti i beni privati dei Borbone e gli stabilimenti pubblici civili e militari delle Due Sicilie. Tutte le spese per la 'liberazione' e dei lavori pubblici (affidati alle speculazioni delle imprese lombardo-piemontesi) furono addebitate proprio alle regioni 'liberate' (!!). Anche l'arretrato sistema tributario piemontese fu applicato nel Napoletano ed in Sicilia, che fino allora avevano avuto un sistema fiscale mite, razionale, semplice e soprattutto efficace nell'imposizione e nella riscossione, indubbiamente tra i migliori in Europa. Al Sud fu applicato un aumento di oltre il 32 per cento delle imposte, mentre gli fu attribuito meno del 24 per cento della ricchezza 'italiana'. Del resto era l'avverarsi di ciò che pochi secoli prima aveva detto Emanuele Filiberto di Savoia ('L'Italia' E' un carciofo di cui i Savoia mangeranno una foglia alla volta').

23/2/2005

 

Ed ora un'altra pagine di atrocità e vergogna su cui i nostri "storici" o glissano o minimizzano.A chi legge il giudizio ultimo.

 

 

IL TALLONE DI FERRO DEI SAVOIA - Dopo la conquista del Sud, 5212 condanne a morte.
Prigionieri e ribelli puniti con decreti e una legge del 1863

MIGLIAIA DI SOLDATI BORBONICI
DEPORTATI NEI LAGER DEL NORD
di STEFANIA MAFFEO
 
Cinquemiladuecentododici condanne a morte, 6564 arresti, 54 paesi rasi al suolo, 1 milione di morti. Queste le cifre della repressione consumata all'indomani dell'Unità d'Italia dai Savoia. La prima pulizia etnica della modernità occidentale operata sulle popolazioni meridionali dettata dalla Legge Pica, promulgata dal governo Minghetti del 15 agosto 1863 "… per la repressione del brigantaggio nel Meridione"[1].
Questa legge istituiva, sotto l'egida savoiarda, tribunali di guerra per il Sud ed i soldati ebbero carta bianca, le fucilazioni, anche di vecchi, donne e bambini, divennero cosa ordinaria e non straordinaria. Un genocidio la cui portata è mitigata solo dalla fuga e dall'emigrazione forzata, nell'inesorabile comandamento di destino: "O briganti, o emigranti"
Lemkin, che ha definito il primo concetto di genocidio, sosteneva: "… genocidio non significa necessariamente la distruzione immediata di una nazione…esso intende designare un piano coordinato di differenti azioni miranti a distruggere i fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali. Obiettivi di un piano siffatto sarebbero la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, della lingua, dei sentimenti nazionali, della religione e della vita economica dei gruppi nazionali e la distruzione della sicurezza personale, della libertà, della salute, della dignità e persino delle vite degli individui…non a causa delle loro qualità individuali, ma in quanto membri del gruppo nazionale".
Deportazioni, l'incubo della reclusione, persecuzione della Chiesa cattolica, profanazioni dei templi, fucilazioni di massa, stupri, perfino bambine (figlie di "briganti") costretti ai ferri carcerari. Una pagina non ancora scritta è quella relativa alle carceri in cui furono rinchiusi i soldati "vinti". Il governo piemontese dovette affrontare il problema dei prigionieri, 1700 ufficiali dell'esercito borbonico (su un giornale satirico dell'epoca era rappresentata la caricatura dell'esercito borbonico: il soldato con la testa di leone, l'ufficiale con la testa d'asino, il generale senza testa) e 24.000 soldati, senza contare quelli che ancora resistevano nelle fortezze di Gaeta, Messina e Civitella del Tronto.
Ma il problema fu risolto con la boria del vincitore, non con la pietas che sarebbe stata più utile, forse necessaria. Un primo tentativo di risolvere il problema ci fu con il decreto del 20 dicembre 1860, anche se le prime deportazioni dei soldati duosiciliani incominciarono già verso ottobre del 1860, in quanto la resistenza duosiciliana era iniziata con episodi isolati e non coordinati nell'agosto del 1860, dopo lo sbarco dei garibaldini e dalla stampa fu presentata come espressione di criminalità comune. Il decreto chiamava alle armi gli uomini che sarebbero stati di leva negli anni dal 1857 al 1860 nell'esercito delle Due Sicilie, ma si rivelò un fallimento. Si presentarono solo 20.000 uomini sui previsti 72.000; gli altri si diedero alla macchia e furono chiamati "briganti". (nel '43, dopo l'8 settembre, accadde quasi la stessa cosa, ma dato che vinsero (gli anglo-americani) la lotta la chiamarono di "resistenza" , e gli uomini "partigiani". Ndr.)
A migliaia questi uomini furono concentrati dei depositi di Napoli o nelle carceri, poi trasferiti con il decreto del 20 gennaio 1861, che istituì "Depositi d'uffiziali d'ogni arma dello sciolto esercito delle Due Sicilie".
La Marmora ordinò ai procuratori di "non porre in libertà nessuno dei detenuti senza l'assenso dell'esercito".Per la maggior parte furono stipati nelle navi peggio degli animali (anche se molti percorsero a piedi l'intero tragitto) e fatti sbarcare a Genova, da dove, attraversando laceri ed affamati la via Assarotti, venivano smistati in vari campi di concentramento istituiti a Fenestrelle, S. Maurizio Canavese, Alessandria, nel forte di S. Benigno in Genova, Milano, Bergamo, Forte di Priamar presso Savona, Parma, Modena, Bologna, Ascoli Piceno ed altre località del Nord.
Presso il Forte di Priamar fu relegato l'aiutante maggiore Giuseppe Santomartino, che difendeva la fortezza di Civitella del Tronto. Alla caduta del baluardo abruzzese, Santomartino fu processato dai (vincitori) Piemontesi e condannato a morte. In seguito alle pressioni dei francesi la condanna fu commutata in 24 anni di carcere da scontare nel forte presso Savona. Poco dopo il suo arrivo, una notte, fu trovato morto, lasciando moglie e cinque figli. Si disse che aveva tentato di fuggire. Un esempio di morte sospetta su cui non fu mai aperta un'inchiesta per accertare le vere cause del decesso.
In quei luoghi, veri e propri lager, ma istituiti per un trattamento di "correzione ed idoneità al servizio", i prigionieri, appena coperti da cenci di tela, potevano mangiare una sozza brodaglia con un po' di pane nero raffermo, subendo dei trattamenti veramente bestiali, ogni tipo di nefandezze fisiche e morali. Per oltre dieci anni, tutti quelli che venivano catturati, oltre 40.000, furono fatti deliberatamente morire a migliaia per fame, stenti, maltrattamenti e malattie. Quelli deportati a Fenestrelle [2], fortezza situata a quasi duemila metri di altezza, sulle montagne piemontesi, sulla sinistra del Chisone, ufficiali, sottufficiali e soldati (tutti quei militari borbonici che non vollero finire il servizio militare obbligatorio nell'esercito sabaudo, tutti quelli che si dichiararono apertamente fedeli al Re Francesco II, quelli che giurarono aperta resistenza ai piemontesi) subirono il trattamento più feroce.
Fenestrelle (nella foto di apertura) più che un forte, era un insieme di forti, protetti da altissimi bastioni ed uniti da una scala, scavata nella roccia, di 4000 gradini. Era una ciclopica cortina bastionata cui la naturale asperità dei luoghi ed il rigore del clima conferivano un aspetto sinistro. Faceva tanto spavento come la relegazione in Siberia. I detenuti tentarono anche di organizzare una rivolta il 22 agosto del 1861 per impadronirsi della fortezza, ma fu scoperta in tempo ed il tentativo ebbe come risultato l'inasprimento delle pene con i più costretti con palle al piede da 16 chili, ceppi e catene.
Erano stretti insieme assassini, sacerdoti, giovanetti, vecchi, miseri popolani e uomini di cultura. Senza pagliericci, senza coperte, senza luce. Un carcerato venne ucciso da una sentinella solo perché aveva proferito ingiurie contro i Savoia. Vennero smontati i vetri e gli infissi per rieducare con il freddo i segregati. Laceri e poco nutriti era usuale vederli appoggiati a ridosso dei muraglioni, nel tentativo disperato di catturare i timidi raggi solari invernali, ricordando forse con nostalgia il caldo di altri climi mediterranei.
Spesso le persone imprigionate non sapevano nemmeno di cosa fossero accusati ed erano loro sequestrati tutti i beni. Spesso la ragione per cui erano stati catturati era proprio solo per rubare loro il danaro che possedevano. Molti non erano nemmeno registrati, sicché solo dopo molti anni venivano processati e condannati senza alcuna spiegazione logica.
Pochissimi riuscirono a sopravvivere: la vita in quelle condizioni, anche per le gelide temperature che dovevano sopportare senza alcun riparo, non superava i tre mesi. E proprio a Fenestrelle furono vilmente imprigionati la maggior parte di quei valorosi soldati che, in esecuzione degli accordi intervenuti dopo la resa di Gaeta, dovevano invece essere lasciati liberi alla fine delle ostilità.
Dopo sei mesi di eroica resistenza dovettero subire un trattamento infame che incominciò subito dopo essere stati disarmati, venendo derubati di tutto e vigliaccamente insultati dalle truppe piemontesi.
La liberazione avveniva solo con la morte ed i corpi (non erano ancora in uso i forni crematori) venivano disciolti nella calce viva collocata in una grande vasca situata nel retro della chiesa che sorgeva all'ingresso del Forte. Una morte senza onore, senza tombe, senza lapidi e senza ricordo, affinché non restassero tracce dei misfatti compiuti. Ancora oggi, entrando a Fenestrelle, su un muro è ancora visibile l'iscrizione: "Ognuno vale non in quanto è ma in quanto produce".(ricorda molto la scritta dei lager nazisti "
Non era più gradevole il campo impiantato nelle "lande di San Martino" presso Torino per la "rieducazione" dei militari sbandati, rieducazione che procedeva con metodi di inaudita crudeltà. Così, in questi luoghi terribili, i fratelli "liberati", maceri, cenciosi, affamati, affaticati, venivano rieducati e tormentati dai fratelli "liberatori".
Altre migliaia di "liberati" venivano confinati nelle isole, a Gorgonia, Capraia, Giglio, all'Elba, Ponza, in Sardegna, nella Maremma malarica. Tutte le atrocità che si susseguirono per anni sono documentate negli Atti Parlamentari, nelle relazioni delle Commissioni d'Inchiesta sul Brigantaggio, nei vari carteggi parlamentari dell'epoca e negli Archivi di Stato dei capoluoghi dove si svolsero i fatti.
Francesco Proto Carafa, duca di Maddaloni, sosteneva in Parlamento: "Ma che dico di un governo che strappa dal seno delle famiglie tanti vecchi generali, tanti onorati ufficiali solo per il sospetto che nutrissero amore per il loro Re sventurato, e rilegagli a vivere nelle fortezze di Alessandria ed in altre inospitali terre del Piemonte…Sono essi trattati peggio che i galeotti. Perché il governo piemontese abbia a spiegar loro tanto lusso di crudeltà? Perché abbia a torturare con la fame e con l'inerzia e la prigione uomini nati in Italia come noi?". Ma della mozione presentata non fu autorizzata la pubblicazione negli Atti Parlamentari, vietandosene la discussione in aula [3]. Il generale Enrico Della Rocca, che condusse l'assedio di Gaeta, nella sua autobiografia riporta una lettera alla moglie, in cui dice: "Partiranno, soldati ed ufficiali, per Napoli e Torino...", precisando, a proposito della resa di Capua, "...le truppe furono avviate a piedi a Napoli per essere trasportate in uno dei porti di S.M. il Re di Sardegna. Erano 11.500 uomini" [4].
Alfredo Comandini, deputato mazziniano dell'età giolittiana, che compilò "L'Italia nei Cento Anni (1801-1900) del secolo XIX giorno per giorno illustrata", riporta un'incisione del 1861, ripresa da "Mondo Illustrato" di quell'anno, raffigurante dei soldati borbonici detenuti nel campo di concentramento di S. Maurizio, una località sita a 25 chilometri da Torino. Egli annota che, nel settembre del 1861, quando il campo fu visitato dai ministri Bastogi e Ricasoli, erano detenuti 3.000 soldati delle Due Sicilie e nel mese successivo erano arrivati a 12.447 uomini. Il 18 ottobre 1861 alcuni prigionieri militari e civili capitolati a Gaeta e prigionieri a Ponza scrissero a Biagio Cognetti, direttore di " Stampa Meridionale", per denunciare lo stato di detenzione in cui versavano, in palese violazione della Capitolazione, che prevedeva il ritorno alle famiglie dei prigionieri dopo 15 giorni dalla caduta di Messina e Civitella del Tronto ed erano già trascorsi 8 mesi. Il 19 novembre 1861 il generale Manfredo Fanti inviava un dispaccio al Conte di Cavour chiedendo di noleggiare all'estero dei vapori per trasportare a Genova 40.000 prigionieri di guerra. Cavour così scriveva al luogotenente Farini due giorni dopo: "Ho pregato La Marmora di visitare lui stesso i prigionieri napoletani che sono a Milano", ammettendo, in tal modo, l'esistenza di un altro campo di prigionia situato nel capoluogo lombardo per ospitare soldati napoletani.
Questa la risposta del La Marmora: "…non ti devo lasciar ignorare che i prigionieri napoletani dimostrano un pessimo spirito. Su 1600 che si trovano a Milano non arriveranno a 100 quelli che acconsentono a prendere servizio. Sono tutti coperti di rogna e di verminia…e quel che è più dimostrano avversione a prendere da noi servizio. Jeri a taluni che con arroganza pretendevano aver il diritto di andare a casa perché non volevano prestare un nuovo giuramento, avendo giurato fedeltà a Francesco Secondo, gli rinfacciai altamente che per il loro Re erano scappati, e ora per la Patria comune, e per il Re eletto si rifiutavano a servire, che erano un branco di car…che avessimo trovato modo di metterli alla ragione". Le atrocità commesse dai Piemontesi si volsero anche contro i magistrati, i dipendenti pubblici e le classi colte, che resistettero passivamente con l'astensione ai suffragi elettorali e la diffusione ad ogni livello della stampa legittimista clandestina contro l'occupazione savoiarda. Particolarmente eloquente è anche un brano tratto da Civiltà Cattolica: "Per vincere la resistenza dei prigionieri di guerra, già trasportati in Piemonte e Lombardia, si ebbe ricorso ad un espediente crudele e disumano, che fa fremere. Quei meschinelli, appena coperti da cenci di tela, rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione con cattivo pane ed acqua ed una sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide casematte di Fenestrelle e d'altri luoghi posti nei più aspri luoghi delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in clima sì caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimare di fame e di stento per le ghiacciaie".
Ancora possiamo leggere dal diario del soldato borbonico Giuseppe Conforti, nato a Catanzaro il 14.3.1836 (abbreviato per amor di sintesi): "Nella mia uscita fu principio la guerra del 1860, dopo questa campagna che per aver tradimenti si sono perduto tutto e noi altri povere soldati manggiando erba dovettimo fuggire, aggiunti alla provincia della Basilicata sortí un prete nemico di Dio e del mondo con una porzione di quei giudei e ci voleva condicendo che meritavamo di essere uccisi per la federtà che avevamo portato allo notro patrone. Ci hanno portato innanzi a un carnefice Piemontesa condicendo perché aveva tardato tanto ad abbandonare quell'assassino di Borbone. Io li sono risposto che non poteva giammai abbandonarlo perché aveva giurato fedeltà a lui e lui mi à ditto che dovevo tornare indietro asservire sotto la Bandiera d' Italia. Il terzo giorno sono scappato, giunto a Girifarchio dove teneva mio fratello sacerdote vedendomi redutto a quello misero stato e dicendo mal del mio Re io li risposi che il mio Re no aveva colpa del nostri patimenti che sono stato le nostri soperiori traditori; siamo fatto questioni e lo sono lasciato"."Allo mio paese sono stato arrestato e dopo 7 mesi di scurre priggione mi anno fatto partire per il Piemonte. Il 15 gennaio del 1862 ci anno portato affare il giuramento, in quello stesso anno sono stato 3 volte all'ospidale e in pregiona a pane e accua. Principio del 1863 fuggito da sotto le armi di vittorio, il 24 sono giunto in Roma, il giorno 30 sono andato alludienza del mio desiderato e amato dal Re', Francesco 2 e li ò raccontato tutti i miei ragioni"[5].
Un ulteriore passo avanti nella studio di questa fase poco "chiara" del post unificazione è stato fatto recentemente, quando un ricercatore trovò dei documenti presso l'Archivio Storico del Ministero degli Esteri attestanti che, nel 1869, il governo italiano voleva acquistare un'isola dall'Argentina per relegarvi i soldati napoletani prigionieri, quindi dovevano essere ancora tanti [6].
Questi uomini del Sud finirono i loro giorni in terra straniera ed ostile, certamente con il commosso ricordo e la struggente nostalgia della Patria lontana. Molti di loro erano poco più che ragazzi [7].
Era la politica della criminalizzazione del dissenso, il rifiuto di ammettere l'esistenza di valori diversi dai propri, il rifiuto di negare ai "liberati" di credere ancora nei valori in cui avevano creduto. I combattenti delle Due Sicilie, i soldati dell'ex esercito borbonico ed i tanti civili detenuti nei "lager dei Savoia", uomini in gran parte anonimi per la pallida memoria che ne è giunta fino a noi, vissero un eroismo fatto di gesti concreti, ed in molti casi ordinari, a cui non è estraneo chiunque sia capace di adempiere fedelmente il proprio compito fino in fondo, sapendo opporsi ai tentativi sovvertitori, con la libertà interiore di chi non si lascia asservire dallo "spirito del tempo".
 
Il "lager" di Fenestrelle. La ciclopica sabauda cortina bastionata
 
lapide fenestrelle
Lapide affissa nel 2008 e successivamente ritrovata distrutta(leggi articolo di seguito)
 

“Tra il 1860 e il 1861 vennero segregati nella fortezza di Fenestrelle migliaia di soldati dell’esercito delle Due Sicilie che si erano rifiutati di rinnegare il re e l’antica patria. Pochi tornarono a casa. I più morirono di stenti. I pochi che sanno si inchinano”. Questo era il testo della lapide apposta nel 2008 a Fenestrelle dai Comitati delle Due Sicilie di Fiore Marro per ricordare i soldati delle Due Sicilie prigionieri dei Savoia morti in quella terribile fortezza diventata (giustamente e coerentemente con la sua terribile storia) il simbolo della tragedia vissuta da decine di migliaia di nostri soldati all’indomani dell’unificazione italiana. Lo storico medievista Alessandro Barbero è stato autore addirittura di un libro (al centro di numerose polemiche) per smentire quella lapide e gli studi che, dopo un secolo e mezzo di colpevole silenzio, avevano raccontato quelle storie scomode per chi è abituato alle solite storie “risorgimentali”. “Quasi tutto quello che venne detto in occasione di quella manifestazione -per lo storico piemontese- è menzogna e mistificazione così come menzognera è la lapide che incredibilmente l’amministrazione del forte ha consentito di esporre… un’invenzione storiografica e mediatica: tanto più ignobile in quanto rivolta ad un’opinione pubblica frustrata e incattivita”. Un linguaggio violento e non proprio consono ad un dibattito storiografico tuttora in corso: le ricerche di Barbero sono limitate per quantità e durata (esaminato il 2% circa del materiale documentario esistente sul tema e tra il 1860 e il 1862…) ed è necessario continuarle, come fu sottolineato anche nel corso di un acceso confronto da chi scrive. Un linguaggio violento e sostanzialmente anche immotivato: effettivamente furono segregati in quella fortezza migliaia di nostri soldati, effettivamente perché non vollero rinnegare re e patria, effettivamente in tanti morirono di stenti e in tantissimi non tornarono più a casa e, effettivamente, per oltre 150 anni, nessuno li aveva mai ricordati. Quali le “controindicazioni” di quella piccola lapide cristianamente rispettosa della nostra storia a fronte, tra l’altro, di migliaia di lapidi retoriche e bugiarde dedicate magari ai massacratori dei meridionali in giro per l’Italia? Quali le motivazioni per il suo spostamento dalla piazza ad una cella e da quella cella, in pezzi, in un contenitore di plastica? I cocci li hanno raccolti gli stessi Comitati durante la loro ultima manifestazione (già pronta, naturalmente, una nuova lapide… Nessun collegamento, è ovvio, tra le polemiche di Barbero e la cancellazione di quel pezzetto di memoria storica ma ci aspettiamo, dopo il silenzio in occasione delle recenti cenette a lume di candela (burlesque compreso) oggettivamente poco rispettoso della stessa tragica e secolare storia di quel luogo di sofferenza e morte, un suo intervento contro chi, effettivamente “frustrato e incattivito”, ha pensato di fermare la dilagante e sacrosanta opera di ricostruzione di verità storica e memoria avviata dagli antichi Popoli delle Due Sicilie ma senza riuscirci e, anzi, rafforzandone addirittura le motivazioni: le lapidi del cuore e dell'anima non si possono più cancellare. Gennaro De Crescenzo
Foto di Ferdinando Luisi

 
NOTE
 
[1] Legge Pica:
" Art.1: Fino al 31 dicembre nelle province infestate dal brigantaggio, e che tali saranno dichiarate con decreto reale, i componenti comitiva, o banda armata composta almeno di tre persone, la quale vada scorrendo le pubbliche strade o le campagne per commettere crimini o delitti, ed i loro complici, saranno giudicati dai tribunali militari;
Art.2: I colpevoli del reato di brigantaggio, i quali armata mano oppongono resistenza alla forza pubblica, saranno puniti con la fucilazione;
Art.3: Sarà accordata a coloro che si sono già costituiti, o si costituiranno volontariamente nel termine di un mese dalla pubblicazione della presente legge, la diminuzione da uno a tre gradi di pena;
Art.4: Il Governo avrà inoltre facoltà di assegnare, per un tempo non maggiore di un anno, un domicilio coatto agli oziosi, ai vagabondi, alle persone sospette, secondo la designazione del Codice Penale, nonché ai manutengoli e camorristi;
Art.5: In aumento dell'articolo 95 del bilancio approvato per 1863 è aperto al Ministero dell'Interno il credito di un milione di lire per sopperire alle spese di repressione del brigantaggio. (Fonte: Atti parlamentari. Camera dei Deputati)
[2] Il luogo non era nuovo a situazioni del genere perché già Napoleone se ne era servito per detenervi i prigionieri politici ed un illustre napoletano, Don Vincenzo Baccher, il padre degli eroici fratelli realisti fucilati dalla Repubblica Partenopea il 13 giugno del 1799, che vi aveva passato 9 anni, dal 1806 al 1815, tornando a Napoli alla venerabile età di 82 anni.
[3] Giovanni De Matteo, Brigantaggio e Risorgimento - legittimisti e briganti tra i Borbone ed i Savoia, Guida Editore, Napoli, 2000.
[4] Questa informazione e tutte le seguenti sono state reperite nei saggi "I campi di concentramento", di Francesco Maurizio Di Giovine, nella rivista L'Alfiere, Napoli, novembre 1993, pag. 11 e "A proposito del campo di concentramento di Fenestrelle", dello stesso autore, pubblicato su L'Alfiere, dicembre 2002, pag. 8.
[5] Fulvio Izzo, I Lager dei Savoia, Controcorrente, Napoli 1999.
[6] S. Grilli, Cayenna all'italiana, Il Giornale, 22 marzo 1997.
[7] Sul sito www.duesicilie.org/Caduti.html è possibile ritrovare i nomi, con data di nascita e provenienza di alcuni martiri di Fenestrelle, nel periodo compreso tra il 1860 ed il 1865. Erano poco più che ragazzi: il più giovane aveva 22 anni, il più vecchio 32.
Questa pagina (concessa solo a Cronologia)è stata offerta gratuitamente dal direttore di http://www.storiain.net
 
Questa Sezione in data odierna,4 gennaio 2013,si arricchisce di due nuovi contributi.Mi auguro che casualmente qualche abitante delle contrade settentrionali della penisola si imbatta in questo sito,così potrà apprendere i fatti accaduti,deformati dalla lente della disinformatia risorgimentale, che impregna di sè i libri,le enciclopedie,le trasmissioni televisive ricche di "esperti" e "professori" e "storici",e uomini politici a digiuno di cultura.
 

NON LASCERANNO AI MERIDIONALI NEMMENO GLI OCCHI PER PIANGERE

 

I Borbone avevano conservato il loro regno integro; i piemontesi, che avevano invaso un Regno senza dichiarazione di guerra, trovarono oro e denaro, saccheggiarono tutto quello che c’era da saccheggiare, massacrarono intere popolazioni, misero a ferro e fuoco il Sud per dieci anni, lo impoverirono, trasferendo tutte le sue ricchezze nel Piemonte. Francesco II, partendo da Gaeta il 14 febbraio 1861, disse al comandante Vincenzo Criscuolo: «Vincenzino, i napoletani non hanno voluto giudicarmi a ragion veduta; io però ho la coscienza di avere fatto sempre il mio dovere, Il Nord non lascerà ai meridionali neppure gli occhi per piangere”. Mai parole furono così vere!

 

ZFrancesco II di Borbone anziano

Sua Maesta il Re delle Due Sicilie,Francesco II di Borbone-Napoli,

qualche anno prima della morte

 


Dal 1860 al 1870 i piemontesi riuscirono a depredare tutto quello che c’era da prendere, svuotarono le casse dei comuni, quelle delle banche, quelle dei poveri contadini, quelle delle comunità religiose, dei conventi; saccheggiarono le chiese e le campagne; smontarono i macchinari delle fabbriche per montarli al nord; rubarono opere d’arte, quadri, statue


Le miniere di ferro, il laboratorio metallurgico della Mongiana in Calabria; le industrie tessili della Ciociaria; le manifatture di Terra di Lavoro; i tanti cantieri navali sparsi per tutto il Mezzogiorno; la magnifica fabbrica di Pietrarsa che dava con l’indotto lavoro a settemila persone; le scuole pubbliche e, soprattutto, la dignità e la libertà furono tolte ai Meridionali i quali, coraggiosamente, preferirono andare a morire partigiani sui monti dell’ Appennino, piuttosto che veder calpestato il suolo della patria napoletana dalle “orde di assassjnj e ladroni del nord”.


Erano così rapaci i fautori dell’Italia Unita che a Napoli furono trafugate anche le batterie della cucina dei palazzi reali. Presero la via di Torino anche due enormi mortai di bronzo cesellati, che stavano negli ospedali militari della Trinità e del Santo Sacramento, tali opere erano state create da Benvenuto Cellini


Tutto il Sud fu razziato e spogliato delle sue fabbriche e delle sue ricchezze: a guerra civile terminata, nel 1871, le più oneste e migliori menti della classe imprenditoriale, quel poco che restava di media borghesia oltre a una miriade di contadini e di operai del Sud, che fino al 1860 non avevano mai conosciuto l’emigrazione, furono costretti ad arricchire gli stati del continente americano.


Fino al 1860, il Regno delle Due Sicilie, ricco di pace, di memorie, di costumi, di commercio, di prosperità, di arti, di industrie, di pesca, di agricoltura, di artigianato, era l’invidia delle genti: scuole gratis, teatri, opere d’ingegneria, meravigliosi musei, strade ferrate, gas, opifici, opere di carità, bacini, cantieri navali, arsenali davano lavoro a tutto il popolo.


Non c’era disoccupazione, era il primo stato Sociale, il primo stato Illuminato del mondo.Dal 1860 al 1871 il Meridione divenne un inferno.


Secondo i dati del primo censimento dell’Italia unita (1861) risulta che su 668 milioni di lire incamerati nelle casse piemontesi, ben 443 appartenevano al Regno delle Due Sicilie.

 

NORD LADRO


Quando si parla d’industria, l’immaginario collettivo pensa al Nord, pensa al triangolo industriale Milano, Genova, Torino, come se il Padreterno avesse eletto i padani a condurre l’economia, come se i meridionali fossero incapaci di produrre beni, ma solo in grado di consumare ricchezza.


Leggendo le statistiche del primo censimento dell’unità d’Italia, ci accorgiamo che gli addetti nell’industria.


Questi sono dati forniti dal governo piemontese nel 1861 e quindi inconfutabili. 1.595.359 addetti nell’industria del Regno Borbonico contro 1.170.859 addetti del resto d’Italia.

 

La Campania nel 1860 era tra le regioni più industrializzata del mondo ed oggi, dopo 150 anni di potere liberal massonico, è definita terra di camorra.


Oggi è sotto gli occhi di tutti la voragine debitoria di questo Stato!


Nel 1860 scannarono il Sud e il Sud ha pagato un prezzo enorme alla causa unitaria: quasi un milione di morti, tra fucilati, incarcerati, impazziti, un decimo della popolazione, 20 milioni di emigranti; la spoliazione delle terre demaniali e dei beni ecclesiastici, tutti i risparmi dei Meridionali rapinati.

 

I pennivendoli di regime continuano a scrivere libri di storia menzogneri sull’Unità d’Italia, danno al Sud colpe tremende di parassitismo; continuano a chiamare “borbonica” la cattiva amministrazione e la burocrazia di stampo piemontese e, soprattutto, sono riusciti ad inculcare nell’immaginario collettivo, senza spiegarne le cause, bombardando continuamente le menti ormai fiaccate della gente, che Sud vuol dire mafia, vuol dire camorra, vuol dire ‘ndrangheta, vuol dire far niente, vuol dire assistito.


Ecco, questi pennivendoli sperano di mettere un velo sull’intelligenza umana, di far dimenticare a qualcuno le miserie del Nord, gli eccidi perpetrati dagli invasori piemontesi, le prepotenze dei liberalmassoni di ieri e di oggi e soprattutto vorrebbero farci dimenticare che il Sud era ricco.


tratto dal sito:


http://www.veja.it/?/archives/2006/11/22_html&paged=38autore Antonio Ciano

Briganti

 


Brigantaggio una guerra sporca nata dal giogo dei Savoia sul sud

 

RISORGIMENTO. L’ALTRA VERITA’

Dopo la cacciata dei Borboni dalle Due Sicilie, il nuovo Governo piemontese riuscì a rendersi cosi impopolare da scatenare un’insurrezione di popolo in piena regola:si formarono 400 bande agguerrite, con oltre 80mila  combattenti e almeno altrettanti impiegati nei “servizi ausiliari

I nuovi dominatori colpirono i patrimoni delle famiglie con sistematica rapacità per ricavare denaro ovunque.Qualche volta trascurarono  i potenti,specialmente se erano amici politici,ma non rinunciarono a guadagnare sulle  piccole proprietà e  si accanirono sulle minuscole

Quando sembrava che la guerra del Risorgimento fosse finita,ne cominciò un’altra che mise a dura prova l’esercito della nuova Italia.

Da Calatafimi al Volturno  le battaglie non erano state granché, soprattutto perché gli ufficiali borbonici ordinavano di ritirarsi quando sarebbe stato il momento di attaccare. Ma quando tutti pensavano a riporre le armi per gestire gli affari con più tranquillità, le campagne cominciarono a rivoltarsi.Cafoni e contadini inneggiavano al re “Franceschiello” ma,in realtà,si dichiaravano per il passato regime soltanto per sottolineare che con il nuovo non volevano avere niente a che vedere.

UNO SCONTRO SENZA TREGUA

Lo scontro tra soldati regolari dell’esercito italiano e guerriglieri meridionali fu senza esclusione di colpi e senza tentennamenti. In dieci anni (dalla proclamazione del Regno d’Italia alla conquista di Roma del 1870)i morti si accatastarono a migliaia e le nefandezze – senza distinzione  fra regolari e partigiani – furono di tale portata da far rabbrividire.

«Cari sudditi, non vi  lasceranno neanche gli occhi per piangere ».

Francesco II,in un anelito di compassione,l’aveva scritto al momento di lasciare il suo regno. Era una previsione quasi ovvia.Qualcuno era già piegato sotto il tallone del conquistatore.Dopo la guerra “ufficiale” – si fa per dire – con scontri  “regolari” tra borbonici e garibaldini,ne era cominciata un’altra più nascosta,ma violenta e senza esclusione di colpi.

Nelle campagne,sulle montagne,attorno alle città,la gente si ribellava ai nuovi padroni.Li avevano sentiti,quando si presentavano come i campioni della libertà, proponevano la fine delle ingiustizie e quando promettevano di dividere i feudi per assegnare un pezzetto di orto ai contadini.Ma poi,ancora provvisoriamente insediati, si accorsero che imponevano incomprensibili ordinamenti,che applicavano leggi importate direttamente da Torino e, soprattutto,che promuovevano una quantità di nuove tasse,

IL PREZZO DELLA CONQUISTA

Il prezzo della guerra che il nord aveva unilateralmente dichiarato bisognava pur pagarlo e il conto toccava per intero al sud. Senza curarsi di quel  “comune sentire” cui attribuivano – sembrava – enorme importanza,fin tanto che si trattava di chiacchiere. Senza nemmeno provare a realizzare  quel buon governo per il quale avevano speso tanti proclami.

I “nordisti” introdussero per  esempio la tassa di successione:«Così i pupilli perdono ciò che il genitore,con sacrificio e privazioni, aveva creato per il loro decoro»

Colpirono i patrimoni  delle famiglie con sistematica rapacità  per ricavare denaro ovunque. Qualche volta trascurarono i potenti, specialmente se amici,ma non rinunciarono a guadagnare sulle piccole proprietà e si accanirono sulle minuscole.

Introdussero,per esempio,l’imposta sulla successione che,di per se,è un’assurdità.Perché pagare per conservare ciò che è già tuo?

Un padre muore  e la  tenera famiglia resta.Ma un ricevitore, con il feretro ancora caldo,si presenta imperterrito,rovista la casa,penetra i segreti,fa l’inventario,somma il valore dell’eredità,calcola il diritto del fisco ch’egli rappresenta e i lacrimanti figli con la derelitta vedova pagano una somma gravissima. E i pupilli perdono ciò che il genitore,con sacrificio e privazioni, aveva creato per il loro decoro.  Lo scrisse un nordista con accenti che parrebbero compassionevoli:il conte Alessandro Bianco de Jorioz .

Peccato che la sua riflessione sia maturata troppo in là negli armi, nel 1876, al momento in cui tutto era irrimediabilmente finito, e il Sud era già diventato “la questione meridionale”.Prima, quando faceva par te del corpo dello Stato Maggiore dell’esercito, con qualche possibilità di farsi sentire e mitigare – se non proprio correggere – quegli atteggiamenti repressivi, lasciò che la burocrazia facesse il suo corso.

Si domandava Bianco de Jurioz: «Perche quella famiglia, rovinata negli affètti e depredata nel patrimonio,avrebbe dovuto essere grata al Savoia che aveva scacciato il Borbone?».

Già…perché? E,infatti,quelle famiglie – altro che grate – consideravano il nuovo regime come un pericolo da cui difendersi.

In fondo,la questione “tassa – di – successione- sì o tassa – di – successione – no” che ha infiammato il dibattito politico di queste ultime legislature – dal 1995 ai giorni nostri – con Berlusconi che ha tolto l’imposta e Prodi che ce l’ha rimessa con la conseguenza che Berlusconi l’ha rilevata,affonda le sue radici nelle disposizioni prese in seguito alla conquista del Sud.

PIEMONTESI CRUDELI E INEFFICIENTI

Dal 1861,le leggi erano orrende ma diventavano atroci per colpa di coloro che le applicavano. I liberatori si rivelarono, al tempo stesso, avidi e insensibili, crudeli e incapaci.

Secondo Dennis Mack Smith ,i politicanti del Nord non avevano che da ringraziare se stessi per l’impopolarità che ben presto si guadagnarono.

Lacaita dalle Puglie scrisse al Presidente del Consiglio Cavour per informarlo che «i fautori dell’Unità d’Italia e del partito dell’annessione erano in netta minoranza».  E, ancora Mack Smith:«L’incursione del Nord  sembrava una nuova invasione barbarica e l’avversione al Piemonte ricordava l’antipatia  cui molti tedeschi del Sud guardavano ai Prussiani del Nord».

La nuova classe politica non aveva nessuna esperienza amministrativa e nessuna conoscenza del Meridione per cui i meriti patriottici – spesso presunti – furono considerati sostitutivi dell’abilità nella gestione delle questioni burocratiche.  Parola di  Pasquale Villari : «Le varie oligarchie regionali furono sostituite da famiglie rivali che erano state più rapide a cambiar casacca. Questo spiega perché insieme a una quantità di avventurieri e disonesti, un numero spaventoso di imbecilli abbia invaso le nuove province del Regno».

Dopo l’attacco di Garibaldi alle difese belliche  di Francesco II  ci fu un secondo assalto della democrazia  piemontese  agli  uffici pubblici.Gli invasori occuparono tutto quello che materialmente era possibile occupare, confiscarono lo Stato e poi lo trattennero come se fosse diventato “cosa loro”.Un volonteroso capitano di Torino diventò un generale pedante a Reggio Calabria.Un discreto maestro settentrionale si trasformò in un pessimo direttore didattico in una circoscrizione del Sud.Un giudice coscienzioso della capitale sabauda si trasformò in un arrogante procuratore di una regione  meridionale.  Il capo sezione divenne capo ripartizione e il capo divisione diventò prefetto.

PROMOZIONI POLITICHE

Ferrari,colonnello di Stato Maggiore, era cuciniere del duca di Modena. Il generale Pietro Fumel era un doganiere.Il colonnello Cattabena aveva fatto fortuna come tenutario di una casa da gioco.E un cassiere della spedizione dei Mille.Agostino Bertani da sottufficiale addetto ai  servizi  sanità,si ritrovò colonnello:quando doveva  lavorare  per vivere chiedeva  il compenso di una lira e mezza per ogni visita medica ma, un anno dopo, era nelle condizioni di vivere di rendita con una fortuna stimata in 14 milioni di lire.

Ognuno venne sbalzato dalla piccola barca del tranquillo e ordinato Piemonte sulla grande nave Italia che, per di più, si trovava a manovrare in cattive acque.

Il Piemonte peggiorò se stesso e trascinò nel baratro l’Italia.

La legge della prevalenza dello stupido trovò   un’occasione per essere applicata su larga scala.

Coinvolgere nel Governo i “terroni”? Erano considerati persone con due facce,inaffidabili,con una coscienza approssimativa e con nostalgie borboniche appena chetate, ma sempre pronte a risvegliarsi.

In Piemonte erano tutti “nuovi” e raccomandabili per cui ogni incarico venne distribuito fra Torino e dintorni.

Il duca di Maddaloni ,nel 1861,si lamentò con passione:«Ai mercanti piemontesi si danno le forniture  più lucrose.I  burocrati del Nord occupano quasi tutti i posti pubblici,gente spesso ben più corrotta degli antichi burocrati napoletani.A fabbricare le ferrovie si mandano operai piemontesi i quali,oltraggiosamente,pagansi il doppio dei napoletani.A facchini di dogana, a carcerieri,a birri vengono uomini dal Piemonte e donne piemontesi si prendono a nutrici all’ ospizio quasi che neppure il latte di questo popolo sia salutevole.È unione questa?».

SEMPRE PIÙ POVERI

Degli invasori, i nuovi padroni ebbero gli atteggiamenti, la iattanza, il disprezzo e la supponenza. I ricchi furono nelle condizioni di aumentare le loro ricchezze e i poveri – se possibile – si ritrovarono più poveri.

La grande speranza stava partorendo il topolino.  Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa insinuava come fosse stata immaginata una grande rivoluzione «per lasciare tutto come prima». In realtà: peggio di prima.

«Questo popolo del Sud, nel 1859, era vestito,calzato,industre,con riserve economieche».La penna del conte de Jurioz non era affatto indulgente nei confronti dei meridionali che considerava «nati in Italia ma appartenenti alle tribù dell’Africa come i Noveri,i Dinkas o ai Malesi di Pulo-Penango» .Per questo,le sue osservazioni hanno maggiore valore.«Il contadino possedeva una moneta:comprava e vendeva animali,corrispondeva gli affitti, alimentava la famiglia,viveva contento del proprio stato materiale».Dati alla mano.«Le civaie (leguminose) furono trovate al prezzo di 2.80 ma nel 1863 erano già salite a 5.20. La carne di bue vendevasi a 15 grana il rotolo e nel 1863 a grana 36.Una  gallina salì da 20 a 55 grana».

Il Governo appena instaurato non si curò dell’economia, non promosse l’industria, non favorì l’agricoltura e non procurò lavoro. Per l’immediato dispose lo stato d’assedio per assicurarsi obbedienza sollecita.Ed era bene che la felicità fosse anche esteticamente visibile.Occorreva celebrare messa per il nuovo Re,cantargli il Te Deum e tributargli onori e riconoscimenti.

Per chi si opponeva: la galera…e chi protestava più vivacemente(o, soltanto, sembrava averne voglia)finiva direttamente davanti al plotone d’esecuzione.

ESECUZIONI ARBITRARIE

Non c’era il tempo per sottilizzare. Le condanne  potevano essere decretate ed eseguite anche solo perché il comandante,quella mattina,era di cattivo umore.L’arbitrio governativo era diventato una regola neanche si trattasse di governare quelle regioni con il criterio dei satrapi orientali.Per le bizze di alcuni funzionari, talvolta meschini,venivano arrestate madri,mogli, sorelle di ogni presunto responsabile di qualche reato «e su di  esse si sfrenava la libidine».

Il capitano medico Antonio Rastelli bruciò con un ferro rovente un sordomuto di vent’anni, Antonio Cappello,perché credeva che facesse finta di non sentire.Ripeté la tortura 154 volte, come testimoniarono altrettante bruciature sul corpo di quel poveretto.I familiari protestarono e fecero ricorso al tribunale ma non ci furono conseguenze perché il giudice sentenziò che l’ufficiale aveva agito in buona fede.L’anno dopo, venne insignito della croce di san Maurizio e Lazzaro.La gente si nascose nei boschi  e si difese cori le armi.Scelsero la macchia alcuni vecchi garibaldini che avevano tifato sinceramente per l’Italia dei Savoia ma che dovettero verificare quanta distanza corresse fra le aspirazioni ideali e il risultato pratico.Li seguirono alcune migliaia  di reduci dell’esercito borbonico  che si trovarono senza lavoro.Si diedero alla guerriglia alcuni nobili legittimisti che vagheggiavano il  ritorno di Francesco II.E poi: contrabbandieri,furfanti,autentici criminali,gente in cerca di avventure,farabutti che,in qualunque tempo e con qualunque regime,avrebbero sparato per uccidere e ucciso per rapinare.

Alcuni erano di poche parole,altri invece erano capaci di improvvisare discorsi anche trascinanti.Qualcuno era vanitoso e cercava i giornalisti stranieri perché pubblicassero dei reportage su di lui.Qualcun altro viveva più defilato e non sopportava nemmeno di essere guardato con troppa insistenza.

In quell’accozzaglia di gente male in arnese,si trovarono i fanfaroni,e i romantici,gli ambiziosi che vestivano come ufficiali di immaginari eserciti e i pittoreschi,che portavano cappelli grondanti nastri e piazzi.

GLI  IDEALISTI E  I  RUBAGALLINE

C’erano gli idealisti e i rubagalline, coloro che – come Domenico Triburzi – davano un senso cavalleresco alla battaglia e rispettavano i nemici o altri come Gaetano Colletta Mammone, che al contrario,inventavano sadiche torture per spaventarli.

Ebbero un momento di fama Giosafatte Tallarico nelle Puglie,Pietro Corea nella zona di Catanzaro e Gioria La Gala nella provincia di Avellino.A Potenza dominava “il generalissimo” Carmine Donatelli Crocco e il suo gregario Giuseppe Nicola Summa “Ninco-Nanco”.

 

La gente conosceva i briganti attraverso i nomignoli che si erano dati: Diavolicchio,Caprariello,Pelorosso,Cavalcante,Coppolone.

Addirittura:Cappuccino ,Chiavone e Culopizzuto.Arrotolata sulla  pancia portavano un’ampia cinta di stoffa, zeppa di pistole e coltellcci,come i Pancho Villa che si sono visti nei  film delle rivoluzioni messicane.

 

Allora il conte di Cavour  sentenziò:«Lo scopo è chiaro:imporre l’unità con la forza fisica,ove non bastasse la forza morale»

Tutti  erano religiosi fino alla superstizione.Tenevano sul petto l’immagine del loro santo che doveva risparmiarli dalle  schioppettate e,agIi incroci delle strade di campagna,si fermavano a baciare i piedi di tutte le statue di Cristo in croce che incontravano.Invece di comprendere le ragioni del malcontento, i padroni del tricolore inasprirono le sanzioni  e la repressione diventò violenta con la “legge Pica ” che poteva essere considerata una  specie di licenza di uccidere.

Il conte di Cavour,dall’alto del suo seggio di Torino,indicò procedure e obiettivo:«Lo scopo è chiaro:imporre l’unità d’Italia alla parte più corrotta.Sui mezzi non vi è  gran dubbiezza:la forza morale e, se questa non bastasse, la fisica».Della forza morale non fu possibile scorgere traccia.Le baionette,invece,si rivelarono appuntite e affilate a misura.

L’ ARTE DEL BOIA

De  Sivo commentò: «Cominciava l’arte del boia». I piemontesi instaurarono il codice militare di guerra con corti marziali  e fucilazioni non soltanto con chi “utilizzava” le armi contro i militari dei Savoia.La legge consentì punizioni esemplari anche nei confronti di coloro che genericamente “venivano sorpresi” con un’arma di qualsiasi genere.Significava che ogni contadino poteva essere ammazzato perché ognuno di  loro possedeva un  fucile “a trombone” per difendersi dalle fiere e almeno un’accetta per tagliare la legna da ardere.

Il generale Pinelli estese la pena di morte «a  chi avesse  con parole o con denaro o con altri mezzi,eccitato i villici a insorgere» nonché a «coloro che  con parole o atti insultassero lo stemma dei Savoia,il ritratto del Re o la bandiera nazionale».

Inventarono le  figure dei  “pentiti”  che  accettavano di  abbandonare la banda di cui avevano fatto parte collaborando con le autorità per sgominare i vecchi compari.Nei loro confronti – era stabilito - sarebbero state applicate con manica larga tutte le attenuanti possibili e immaginabili,in modo da evitare loro il carcere. Coloro che mettevano l’esercito in condizione di acchiappare qualche brigante sarebbero  stati  ricompensati con premi in denaro.

Anche il poeta Dragonetti , patriota della prima  ora   e quindi non sospetto di nostalgia  non volle sottrarsi a un commento critico:«Con la legge Pica  le vendette non ebbero migliore opportunità di libero sfogo».Bastava poco per finire nella lista dei proscritti e candidarsi al plotone d’esecuzione.Rischioso avere un credito nei confronti di persone con il pelo sullo stomaco;pericoloso essere il  marito di una donna troppo bella e appetita da chi non si faceva scrupolo. Una lettera  anonima e i gendarmi che correvano per arrestarli cancellavano il debito e il rivale in amore.

La rudezza disumana  dei conquistatori finì per accrescere il senso di ostilità delle popolazioni locali.Di conseguenza,aumentò la durezza della repressione.II numero  degli sbandati crebbe proporzionalmente agli abusi.

I NUMERI DEI RESISTENTI

I fuorilegge  riuscirono a costruire 400 bande agguerrite.Con calcolo meticoloso,Tarquinio Maiorino ha potuto stabilire che arrivarono a contare 80.702 combattenti.

Almeno altrettanti coloro che facevano parte dei cosiddetti servizi ausiliari:infermieri, informatori,porta ordini,vivandieri,conviventi,familiari e amanti.I briganti godevano di solidarietà diffusa fra la gente e,quando entravano nei paesi,era festa grande.

Risultò che,da settembre 1860 ad agosto 1861,vi furono 8.968  fucilati,10.604 feriti e 6.112 prigionieri.Le case distrutte furono 918

Molti vennero uccisi.Dalle zone di guerriglia pochi riuscirono ad arrivare al carcere.La stragrande maggioranza veniva sterminata sul posto senza troppi complimenti.Quanti?  Michele Topa cita i giornali stranieri che,in quegli stessi anni,tentarono un bilancio di questa guerra nascosta,non dichiarata eppure sanguinosissima.Risultò  che,dal settembre 1860 all’agosto 1861,poco meno di un anno solare,vi furono 8.968 fucilati,10.604 feriti e 6.112 prigionieri.Vennero uccisi 64 sacerdoti e 22 frati, 60 giovani sotto i 12 anni e 50 donne.Le case distrutte furono 918,molti i paesi cancellati dalla carta geografica.

UNA MARZABOTTO DELL’OTTOCENTO

Per esempio, con il ferro e con il fuoco distrussero Pontelandolfo e Casalduni.Nei ranghi dei reparti che si lanciarono all’assalto  insieme ad altri  900 soldati,c’era anche un bersagliere di Delebio Valtellina,Carlo Margolfi ,che confidò al suo diario emozioni e ricordi. Il  4 agosto 1861,fu mandato a sedare i disordini esplosi nella provincia di Benevento.I ribelli filo borbonici Cosimo Giordano e Donato Scurignano si erano imbattuti in un distaccamento di fanti in marcia e li avevano sterminati.I cadaveri erano stati straziati, pezzi di corpi martoriati erano stati trascinati per la campagna,teste mozzate erano finite sulle picche e portate in giro in una macabra processione.L’aver calpestato le croci sabaude e innalzato le bandiere gigliate era il minimo.Lo Stato Maggiore non poteva lasciare correre e pretese una punizione esemplare.

«Riceviamo l’ordine di entrare  in Pontelandolfo,fucilare gli abitanti,meno i figli,le donne e gli infermi e incendiarlo.Difatti un po’ prima di arrivare al paese, incontrammo i briganti che attaccammo e  che, in breve,facemmo correre davanti a noi».I comandanti, invece di inseguire le bande armate,preferirono sfogare la rabbia contro chi era rimasto chiuso in casa sua: dunque rinunciarono a punire i colpevoli e se la presero con chi,certamente,non aveva responsabilità.

«Entrammo nel paese e subito cominciammo a fucilare i preti e gli uomini.Indi il soldato saccheggiava. E, infine,abbiamo dato incendio».

Fu una specie di Marzabotto dell’Ottocento.

Il  diario di Carlo Margolfi lascia intendere che i soldati eseguirono l’ordine senza entusiasmo. «Quale desolazione!Non si poteva stare lì intorno per il gran calore.E quale rumore facevano quei poveri diavoli che,per sorte,avevano da morire abbrustoliti sotto le rovine delle loro case. Noi,invece,durante l’incendio avevamo di tutto:pollastri,conigli,vino,formaggi e pane».

Forse esagerano gli storici che, leggendo il Risorgimento  in chiave borbonica, sostengono che il Meridione pagò l’unità d’Italia con 700mila vittime .E probabilmente è un impeto di polemica quello che porta Antonio Ciano a ipotizzare un milione di morti.Ma,certo la parola “massacro” non è  nè gratuita nè esagerata.

Di questo bagno di sangue il Nord Europa non volle sapere.Napoleone III ,informato evidentemente per sommi capi di quanto stava accadendo,commentò:«Nemmeno i Borbone potevano fare peggio».Ma,forse per evitare complicazioni diplomatiche,non ritenne di intervenire.

Il deputato Mancini , dovendone discutere in Parlamento, se la cavò con un tartufesco: «Preferisco non fare rilevazioni di cui l’Europa potrebbe inorridire».Dichiarazione,nel contempo,seria e ipocrita perché conteneva gli estremi di  una denuncia  anche grave e,  tuttavia,inutile perché senza riferimenti specifici non poteva produrre alcun risultato.Anche allora – guarda un po’ come le questioni sono sempre le stesse – si trattava di fare bella figura in Europa!

 

UNA FEROCE DITTATURA

Dieci anni di scontri vennero nascosti o minimizzati all’opinione pubblica.I giornali erano pochi, compiacenti con il Governo e,contemporaneamente,disinteressati di quanto accadeva dal Tevere in giù.

Antonio Gramsci, fondatore del Partito Comunista italiano, non ebbe difficoltà a dichiarare che «lo Stato italiano fu  una feroce dittatura per l’Italia meridionale e le isole,crocifiggendo, squartando seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori sardi tentarono di infamare con il marchio dei briganti».Gramsci era cresciuto ad Ales,in Sardegna ma la sua famiglia era meridionale.Il padre,Giuseppe era nato a Gaeta nel 1860.Proprio durante l’assedio alla fortezza e il nonno,Gennaro,che poteva fregiarsi del titolo di “don”,era stato capitano della gendarmeria  borbonica.Generali,Governo e Parlamento non dettero conto dei morti ammazzati fra gli avversari ma si preoccuparono anche di  non far sapere chi,fra i regolari,ci aveva lasciato la pelle.Certamente non pochi.Ma non è possibile stabilire quanti “piemontesi” furono uccisi perché nell’esercito,in  quegli anni,proprio per mascherare l’evidenza,si ricorse alla formula generica di  “deceduto  per ragioni di servizio”

Nessuna differenza nel modo di combattere. Insieme praticarono una violenza sfrenata, gareggiando in ferocia.Imboscate,agguati, tradimenti,c adaveri ammucchiati nei cortili. Vigliaccheria ed eroismo,duelli e massacri,violenza e crudeltà. I banditi con il vantaggio di conoscere i luoghi e la possibilità di scegliere quando attaccare.I soldati con una migliore organizzazione e con retrovie che assicuravano rifornimenti rapidi.

 

Soltanto alla fine,quando i vincitori scrissero la loro storia,si seppe da quale parte stavano i buoni e i giusti e da quale parte gli infami e i cattivi. Nel Meridione d’Italia i briganti persero e restarono briganti,mentre gli ufficiali dell’esercito ebbero l’opportunità di mostrare il  petto coperto di medaglie al valore.

 

I partigiani del Borbone,insieme a quelli che li aiutavano o che,semplicemente,non erano palesemente ostili,furono fatti a pezzi come non avrebbero osato nemmeno le truppe di occupazione più inumane.Li impiccarono  e lasciarono i loro corpi a penzolare dai pennoni. Portarono in giro i cadaveri per paesi e contrade. Obbligando la gente a vedere con i propri occhi come venivano trattati i nemici dei Savoia.Alcuni furono inchiodati ai portali dei palazzi.  Ad altri mozzarono la testa che riposero in una cassettina, come quelle che si usavano per ricoverare gli uccellini,per mostrarla in giro ed esibirla come trofeo.

Le canzoni  popolari e i racconti dei bis-bisnonni registrarono ignomie e crudeltà orripilanti.

 

C’è più verità in una ballata di cantastorie che in una quantità di capitoli di storia compiacente.

 

(13 – Continua)

Fonte: srs di Lorenzo Del Bocca; da La Padania, sabato 31 ottobre 2009, pag. 14- 15 -16.

 

 

Vittorio Messori: occorre rivedere il Risorgimento “italiano”

 

di Antonio Cariola ~ settembre 30th, 2007 (da L'Opinione)

 

Le idee migliori sono proprietà di tutti.

 

 

 

Vittorio Messori, storico, intellettuale, giornalista e scrittore italiano nato a Sassuolo (Modena), [ma formatosi a Torino,n.d.r.], famoso per la sua eclatante conversione al Cristianesimo e per i suoi libri appassionanti sulla Fede e sulle questioni teologali, ogni tanto torna storico e denuncia nel suo “Le cose della Vita ” la scandalosa ignoranza storica sul periodo risorgimentale e la voluta negazione di eventi e primati che qui già altre volte abbiamo riportato.

 

Di seguito l’articolo con il pensiero di Messori.

 

“Borbonico”, si sa, è un termine ingiurioso: è sinonimo di oscurantismo, inefficienza, ottusità, malaffare. Questi significati sono recenti e sono propri solo della lingua italiana. In Spagna, ad esempio, la gente di ogni convinzione politica sembra soddisfatta del suo Juan Carlos, che è un re borbonico, discendente dalla antica, ramificata dinastia che prese origine da modesti feudatari del castello di Bourbon. Proprio in Francia, una delle glorie nazionali è un altro Borbone, quel Luigi XIV significativamente chiamato “il re Sole”; e sono in molti ancora a piangere la fine dell’ultimo della dinastia, Luigi XVI, il sovrano ghigliottinato, che, pure, ebbe il solo merito di riscattare con il dignitoso coraggio in morte le fiacchezze e gli errori della vita.

 

Se da noi – e da noi soltanto – “borbonico” suona male, il motivo va cercato nella propaganda risorgimentale che doveva giustificare l’aggressione contro il Regno delle Due Sicilie , retto appunto da un ramo dei Borbone, quello di Napoli. Sia l’ala “rivoluzionaria” (quella di Garibaldi e Mazzini), sia quella “moderata”, “liberale”, alla Cavour, alla d’Azeglio, per una volta unite, crearono attorno ai sovrani partenopei una delle numerose “leggende nere” che ancora infestano tanti manuali scolastici e che popolano l’immaginario popolare. Anche qui, la revisione storica è da tempo all’opera, ma i suoi risultati non sembrano essere giunti ai molti – anche giornalisti – che continuano a dire “borbonico”, così come scrivono scioccamente “medievale”, per sinonimo di barbarie.

 

Qualche tempo fa, uno studioso meridionale, Michele Topa, ha pubblicato sul quotidiano di Napoli, “Il Mattino”, una serie di articoli frutto di non conformistiche ricerche. Quei saggi sono stati raccolti in un grosso volume dal titolo “Così finirono i Borbone di Napoli”, pubblicato dall’editore Fiorentino. Lo storico articola la sua ricerca soprattutto attorno agli ultimi due re, quelli sui quali si è scatenata la campagna di diffamazione gestita dai Savoia, usurpatori del loro regno. Al centro del libro, dunque, Ferdinando II, re delle Due Sicilie dal 1830 al 1859 (vilipeso come “Re bomba”, a causa della sua corporatura vigorosa, secondo la leggenda ingiuriosa creata anche dalla massoneria inglese) e il figlio Francesco II, spodestato da garibaldini e sabaudi nel 1860, dopo un solo anno di regno e aggredito e diffamato anche per avere rifiutato – lui, cattolicissimo – l’offerta del Piemonte di spartirsi lo Stato Pontificio.

 

Non certo per pigrizia, ma perché non sapremmo dir meglio, riportiamo qui parte della recensione al volume di Michele Topa apparsa su un numero di questo giugno della “Civiltà Cattolica” (oggi, tutt’altro che “reazionaria”), a firma di padre S. Discepolo.

 

Ecco, dunque: «Molti manuali di storia presentano Ferdinando II come un mostro, un boia incoronato, un tiranno senza freni, alla testa di un governo che era la negazione di Dio. Queste falsità furono orchestrate e diffuse da inglesi e piemontesi con fini machiavellici; ma poi furono sconfessate dagli stessi autori. Gladstone ritrattò , affermando che le sue lettere erano false e calunniose, che era stato raggirato e che “aveva scritto senza vedere”. Settembrini, autore di un infame libretto, confessò che fu “arma di guerra”. Ferdinando II, in realtà, secondo lo storico, fu un re onesto, intelligente, capace, galantuomo, profondamente amante del suo popolo. Il regno fu caratterizzato da benessere, fioritura culturale, artistica, commerciale, agricola e industriale. Poche le tasse, la terza flotta mercantile d’Europa, una delle più forti monete, il debito pubblico inesistente, l’emigrazione sconosciuta. Il miracolo economico del Sud Italia fu elogiato nel Parlamento inglese da lord Peel. L’industria era all’avanguardia, con il complesso siderurgico di Pietrarsa, che riforniva buona parte d’Europa, e il cui fatturato era dieci volte rispetto all’Ansaldo di Sampierdarena. Oltre al primo bacino di carenaggio d’Europa, Napoli ebbe la prima ferrovia d’Italia. 120 chilometri raggiunsero presto i 200 ed erano già pronti i progetti per estendere la ferrovia in tutto il regno. I prodotti come la pasta e i guanti erano esportati in tutto il mondo. Prima del crollo, il Regno delle Due Sicilie aveva il doppio della moneta di tutti gli Stati della Penisola messi insieme. Sono significative alcune cifre del primo censimento del Regno d’Italia: nel Nord, per 13 milioni di cittadini, c’erano 7.087 medici; nel Sud, per 9 milioni di abitanti, i medici erano 9.390. Nelle province rette da Napoli gli occupati nell’industria erano 1.189.582. In Piemonte e Liguria 345.563. In Lombardia 465.003».

 

Continua la sua sintesi del libro di Michele Topa il recensore della “Civiltà Cattolica”: «Certo, c’era il rovescio della medaglia: un governo paternalistico, una polizia – nella bassa forza – corrotta, una forte censura. Erano però le caratteristiche dei governi del tempo ed erano avvertire solo dai ceti intellettuali. Ferdinando Il, se è attaccabile sul piano strettamente politico, non lo è su quello morale. Le repressioni del 1848, così enfatizzate, sono da considerarsi moderate in confronto con quelle di altri Stati o con il modo con il quale l’Inghilterra represse i moti coloniali. Ferdinando II graziò moltissime persone per i reati politici e di 42 condanne a morte non ne fu eseguita nessuna».

 

Se così stavano le cose (e dati, cifre, documenti, lo confermano sempre) come mai il crollo del Regno del Sud davanti all’aggressione garibaldina? Continuiamo, allora, a trascrivere: «Causa prima della fine fu la prematura morte di Ferdinando Il. Suo figlio Francesco II, mite, dolce, cavalleresco, mal consigliato e tradito dai suoi collaboratori comprati dall’oro piemontese, si trovò a combattere non solo contro Garibaldi, ma contro Vittorio Emanuele II (suo cugino), Cavour, la Francia, l’Inghilterra. Lo sbarco dei Mille avvenne sotto la protezione della flotta inglese e, nella decisiva battaglia di Milazzo, Garibaldi aveva sull’esercito napoletano la supremazia di 5 a 1. Il tradimento, la corruzione e l’inettitudine dei generali portarono Garibaldi a Napoli. Ma nella battaglia sul Volturno i napoletani ebbero la meglio, a Caiazzo i garibaldini furono sconfitti, a Capua travolti. Il mito dell’infallibilità di Garibaldi fu infranto, a stento riuscì a salvare la vita…».

 

Ci permettiamo, poi, di rimandare pure a quanto scrivevamo al proposito, in una raccolta precedente, sui tre milioni di franchi oro versati in segreto ai capi dei Mille per comprare la resa dei borbonici (cfr. Pensare la storia, p. 258s). Ma che avvenne dopo? Ecco: «A Napoli, bastarono 62 giorni di dittatura garibaldina per distruggere le floride finanze e l’economia del Paese, che crollò industrialmente. Il disavanzo napoletano alla fine del 1860 era già salito a 10 milioni di ducati, nel 1861 a 20 milioni. Ben presto gli abitanti del Regno toccarono con mano quanto più duro fosse il nuovo regime. Molti presero le armi e si diedero alla rivoluzione. Per domarli, dovette intervenire un esercito di 120.000 uomini…».

 

Adesso, siamo avvertiti: prima di ingiuriare qualcosa a qualcuno definendoli “borbonici”, conviene informarsi meglio…..

 

Finalmente!

Un piemontese che ragiona con il cervello, dati alla mano, senza piegarsi alla propaganda e alle ragioni della pseudostoria.

(Ovviamente nel 2014 un altro piemontese ha pubblicato un libro con il quale ci racconta tutta la verità, soltanto la verità, nient'altro che la verità, specialmente su Fenestrelle, rimettendo le cose a posto! Non lo menzioniamo, perchè volutamente lo ignoriamo con tutti i suoi libri e comparsate tv).

 

Dopo diversi anni ho rivisto queste note. Una grande amarezza, un infinito scoramento mi prendono e mi tengono immobile davanti al pc.

Ancora oggi si rinnova in me il dolore per questi tragici fatti, ai quali hanno preso parte tanti nostri connazionali inconsapevoli del male che andavano ad arrecare ai loro fratelli in nome di ideali fasulli, strumentalizzati da chi aveva tutto l'interesse a che le cose andassero per un certo verso.

Non potrò mai perdonare alla casa savoia (in minuscolo!) il male arrecato agli abitanti della Penisola italiana per asservirli ai loro sporchi giochi di potere. Altrettanto dicasi per i cosiddetti "patrioti", speso ciarlatani e gente senza arte nè parte, ai quali sono stati innalzati monumenti, dedicate strade, piazze, scuole! Qual è il risultato del loro pensiero e della loro azione "risorgimentale"? Il risultato è l'Italia che ci rtroviamo sotto gli occhi: prima un regno ridicolo, poi una dittatura ridicola, infine una repubblica delle banane. Mai, dico mai, influente sul piano internazionale, ma, soprattutto, incapace di creare all'interno condizioni di benessere e di sviluppo per i suoi cittadini, costretti sempre a confrontarsi con la povertà, la disoccupazione, la sottoccupazione, l'emigrazione all'estero. Vergogna, infinita vergogna per tutti coloro che dal 1860 ad oggi si sono occupati della cosa pubblica, a livello centrale e periferico!!!

 

 

 

 

 
 
 
 

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 
 

Stampa

www.italozamprotta.net Italo Zamprotta il promotore delle Università Popolari di Biella

...